Orari e ritmi di lavoro prolungati, affaticamento provocato dalle operazioni di scarico e carico delle merci, camion obsoleti che percorrono strade dissestate, con infrastrutture inadeguate, spesso all’origine di incidenti stradali, sono le condizioni in cui operano i trasportatori di merci, sottoposti a rischi altissimi per la loro salute, non adeguatamente analizzati. È quanto hanno denunciato Inca e Filt Cgil in un recente convegno dal titolo eloquente, “La sicurezza non è una ruota di scorta”, nel quale sono stati illustrati i risultati di una ricerca condotta sulla base di circa 600 questionari, distribuiti tra gli addetti del settore. Un campione significativo che ha permesso di rilevare come gli autisti di mezzi pesanti siano esposti al pari, se non di più, degli edili a subire infortuni e malattie professionali, per i quali, a dispetto della crescente domanda di tutela, resta molto basso il riconoscimento del nesso causale da parte di Inail. 

Secondo i dati ufficiali, nei trasporti in generale, ogni anno, si accertano circa 27 mila infortuni e 130 morti, di cui 100 avvenuti nello svolgimento del lavoro. Il 70% interessa l’autotrasporto e la logistica delle merci, cioè quei settori maggiormente esposti ad una vera e propria competizione selvaggia. Ciononostante – spiega Marco Bottazzi, responsabile della consulenza medico legale di Inca, che ha curato l’indagine -, solo una piccola parte delle denunce di infortunio pervenute all’Inail è riconducibile ad incidenti stradali, mentre nella maggior parte dei casi i lavoratori dichiarano di essersi fatti male durante le operazioni di carico e scarico delle merci, nella discesa e nella salita dal mezzo, cioè quando i camion sono in uno stato di ‘fermo’. Un elemento che sembra quasi un controsenso, considerando le tante ore di guida del mezzo (oltre 7 ore continuative al giorno), cui sono sottoposti gli autisti, ma che comunque denota l’ampia esposizione ai rischi che coinvolgono i trasportatori di merci, ben più estesa e non opportunamente indagata.  

Per il segretario generale della Filt Cgil, Alessandro Rocchi, complice anche la crisi, il settore del trasporto merci è sottoposto a “fenomeni competitivi europei e mondiali, che si sviluppano in modo pericolosamente distorto”, con il reclutamento di lavoratori extraeuropei. “Sia nell’autotrasporto che nella logistica delle merci – spiega –, queste differenze nell’origine dei lavoratori si annullano quando si analizzano le caratteristiche fondamentali del loro lavoro: poche regole, tanto lavoro, poco salario; rapporti di lavoro dei più svariati, dove perfino il voucher è spesso sopravanzato dal lavoro irregolare, inteso nel senso proprio del termine e che, in molti casi, è corretto definire vero e proprio lavoro nero; forme cooperative finte, talmente finte che, specialmente nella logistica, molti lavoratori ignorano addirittura di esserne soci”. In questo contesto, non deve sorprendere se è sempre più diffusa la pratica di mascherare gli incidenti e le patologie lavoro correlate dietro malattie comuni, quasi fosse un bisogno degli stessi autotrasportatori per sconfiggere la paura di incorrere nel rischio di essere dichiarati inidonei e perciò di perdere la possibilità di continuare a lavorare.

Stress, fatica, disturbi muscolo-scheletrici e obesità sono i principali fattori che rendono il lavoro insalubre per chi lo svolge. Complessivamente, riferisce l’Inca, le patologie muscolo-scheletriche denunciate all’Inail sono aumentate del 65 per cento, a partire dal 2008, anno in cui sono state aggiornate le tabelle delle malattie professionali. Ciononostante, il livello di riconoscimenti del nesso causale con il lavoro da parte dell’Istituto assicuratore non ha seguito lo stesso andamento, confermando gli ostacoli per i lavoratori di accedere alle tutele previste in questi casi.  

Un altro dato significativo rilevato dall’indagine Inca riguarda l’età del mezzo di trasporto che, nella maggior parte dei casi, supera i dieci anni. Un fattore preoccupante che riduce i livelli di sicurezza nel lavoro. Strettamente connesso a questo problema è l’orario di guida che supera le 7 ore giornaliere continue, quasi verso il limite massimo – avverte l’Inca - permesso dalla normativa europea, che non vale solo per i 24 Paesi della Unione europea, ma anche per altre aree geografiche extra Ue. 

Se alle ore di guida dedicate, si aggiunge che la maggior parte dei lavoratori intervistati si occupa anche delle operazioni di carico e scarico delle merci, il rischio all’affaticamento raddoppia in modo netto. Considerando i risultati, l’indagine fa emergere che ben 302 lavoratori su 453 segnalano di avere problemi al tratto lombosacrale, ma anche al collo, nuca, spalle. E a essere investiti non sono i più anziani, come si potrebbe pensare: 103 intervistati hanno un’età compresa tra i 50 e i 60 anni e altrettanti sono 40-50enni; cioè persone che potrebbero avere una colonna ancora in buone condizioni. Quasi un decimo dei lavoratori con problemi alla colonna, nel tratto lombosacrale, ha un’età tra i 30 e i 40 anni. Meno grave, ma comunque sintomatico di una situazione che investe la generalità di questi lavoratori, è il fatto che due terzi dei 30-40enni intervistati dicono di aver subito il cosiddetto “colpo della strega”, sotto forma di  “episodi di lombalgie acute, in gran parte recidivanti”. Patologie, perciò, strettamente connesse più all’anzianità di servizio, piuttosto che all’età anagrafica. 

Merita un’osservazione a parte il fatto che mentre negli altri Paesi europei lo stress lavoro correlato è prevalente tra gli addetti del settore, in Italia non è percepito come tale. Ed è inquietante considerando che le condizioni di lavoro sono uguali un po’ ovunque. In realtà, spiega l’indagine, tra gli intervistati lo stress è percepito non come fattore di rischio, ma come ostacolo alla prosecuzione del lavoro”. E cioè ancora una volta come l’anticamera della inidoneità alla mansione e dunque del licenziamento. 

Alla insicurezza e alla precarietà, rileva l’indagine, si aggiunge anche una inefficace azione di sorveglianza sanitaria: i lavoratori intervistati che hanno dichiarato malattie chiaramente invalidanti non sono stati raggiunti da giudizi di “non idoneità” o di “idoneità limitata”, neanche quando sono stati segnalati al medico competente. Lo stesso è addirittura accaduto nei casi più gravi, cioè a lavoratori con importanti patologie cardiovascolari, già sottoposti a interventi chirurgici. “Quasi a prefigurare – rileva Bottazzi - un atteggiamento elusivo rispetto all’obbligo di denuncia, pur previsto dall’art. 139 del Testo Unico del ’65”. 

Perché accade? La risposta non può che essere quella di una percezione diffusa della inidoneità come rischio per il proprio posto di lavoro. “Per invertire la direzione – spiega Morena Piccinini, presidente Inca – bisogna agire cercando con ogni sforzo di innovare la capacità di tutela da parte del patronato e negoziale, da parte del sindacato, per fare in modo che sia fatto tutto il possibile per ricollocare, in quel luogo di lavoro o in un altro, il lavoratore inidoneo. E l’Inail è stato fornito anche di risorse per aiutare e agevolare questo processo. Non  dobbiamo lasciare semplicemente al rapporto lavoratore/impresa il problema della possibilità o meno di nuovi inserimenti”.