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Il decreto legge n. 113 del 2018, da non molto convertito in legge n. 132, trasfigura l’accezione della cittadinanza nazionale: i cittadini non sono più tutti uguali, qualcuno è titolare di una cittadinanza “precaria” perché revocabile. Il governo e il Parlamento hanno distinto tra i cittadini inossidabili, quelli italiani iure sanguinis, e i cittadini che hanno acquistato la cittadinanza per matrimonio o per naturalizzazione. Solo chi è cittadino senza avere una goccia di sangue italico può vedersi revocare la cittadinanza. Non gli altri cittadini, i cittadini per nascita, i “veri” cittadini secondo il legislatore.
In altri termini, le straniere e gli stranieri resteranno tali per sempre, perché alla fine di quel lungo percorso di integrazione che può portare alla richiesta della cittadinanza otterranno comunque una cittadinanza di serie B, perché revocabile. Diventa revocabile peraltro una cittadinanza che contestualmente si rende ancor più difficile ottenere: dopo che nella precedente legislatura non si è riusciti a semplificare l’acquisto della cittadinanza introducendo forme molte blande di ius soli e ius culturae, ora si estende da 24 a 48 mesi il termine per la conclusione dei procedimenti di riconoscimento della cittadinanza, sia per naturalizzazione (10 anni di ininterrotta residenza legale) che per matrimonio (due anni superati i quali finora si formava il silenzio assenso per beneficio di legge).
Oltre, quindi, a perpetuare l’irresponsabile tendenza a far divaricare la forbice tra chi vive, lavora, va a scuola in Italia e chi gode della titolarità della cittadinanza italiana, si introduce per chi nasce straniero la possibilità di revoca della cittadinanza in caso di condanna definitiva per taluni reati di particolare gravità: si tratta dei delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale, le cui fattispecie penali sono talmente ampie e generiche da suscitare preoccupazione e varie perplessità rispetto al principio costituzionale della determinatezza dei reati.
Tra questi reati rientrano anche “le condotte che, per la loro natura o contesto, possono (…) costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto” (art. 270-sexies del codice penale). La legislazione contro il terrorismo e in generale le perennemente addotte “ragioni di sicurezza” sembrerebbero aver portato verso un’indeterminatezza dei reati dall’applicabilità sconfinata, contro i limiti costituzionali in materia penale.
Al di là delle fattispecie penali coinvolte, tuttavia, la previsione della revoca della cittadinanza come condanna accessoria prevista per i “nuovi” cittadini è limpida espressione di politiche discriminatorie per violazione del principio di uguaglianza nei confronti di una categoria specifica di cittadini. Se la revoca è prevista solo per alcuni cittadini sulla base del modo di acquisto della cittadinanza il cui unico discrimine con gli altri cittadini è di aver acquisito la cittadinanza non per nascita, allora la ragione del discrimine va rintracciata nella loro origine straniera, che diventa macchia indelebile.
Si tratta di eclatante violazione del principio di uguaglianza di fronte alla legge ex articolo 3, comma 1, per discriminazione sulla base delle condizioni personali dei cittadini, se non addirittura direttamente sulla base della razza: gli stranieri nel loro complesso, nonostante le infinite differenze tra di loro, sembrerebbero essere accomunati dal semplice fatto di non appartenere dalla nascita alla “razza italica”. Italiani si nasce e basta, a quanto pare, secondo il legislatore pro tempore che sta perseguendo la propria idea politica di cittadinanza.
Si tratterebbe di una visione statica della cittadinanza, intesa come appartenenza di sangue a un’identità immodificabile. Si perde così l’idea di cittadinanza come partecipazione e adesione volontaria a una comunità politica, come trasmette l’idea moderna di nazione e soprattutto la nostra Costituzione. Sono, dunque, motivazioni che poggiano sulla convinzione che si appartiene alla nazione italiana essenzialmente per nascita, per sangue, mentre chi nasce straniero può accedervi, ma non irrevocabilmente. Questa discriminazione non corrisponde a precisi “motivi politici” vale a dire a deliberate politiche xenofobe che vedono l’intera categoria dello straniero come qualcosa di immodificabile, di statico, di ontologicamente pericoloso? Di un “voi” che non potrà mai davvero fino in fondo diventare un “noi”?
Per tale ragione la previsione della revoca della cittadinanza, prima ancora di essere una palese discriminazione, costituisce una violazione diretta e piena dell’articolo 22 della Costituzione, che recita che “nessuno può essere privato, per motivi politici (…) della cittadinanza”. L’articolo 22, sebbene sia una disposizione piuttosto laconica, è una norma molto significativa. Si tratta di una chiara risposta a quella che è stata considerata la tragica novità del Novecento: la privazione di massa della cittadinanza che portava alla perdita del “diritto di avere diritti” di cui parlava Hannah Arendt quando si interrogava sulle “origini del totalitarismo”.
Nell’articolo 22, infatti, la cittadinanza si affianca al nome e alla capacità giuridica come istituti ritenuti essenziali per una piena dignità della persona, per tutelarne la personalità giuridica. Per questi motivi, il suddetto articolo vieta espressamente che una persona (cittadino o straniero) possa non essere più considerato un soggetto di diritto, privandolo dell’identità (il nome), della capacità giuridica (la titolarità di diritti e di doveri) e della cittadinanza (l’insieme dei diritti e dei doveri previsti dall’ordinamento italiano, a partire da diritto di soggiorno).
L’articolo 22 fu introdotto, a ribadire il divieto di discriminazione per ragioni razziali e politiche, perché i costituenti avevano ben presente l’esperienza del regime fascista, che decise la perdita della cittadinanza per gli oppositori del regime fuggiti all’estero e per gli ebrei. Meuccio Ruini nella relazione al progetto di Costituzione affermò che “né, dopo aver assistito agli arbitrî che, per ragioni politiche o razziste, spogliavano intere schiere di cittadini del geloso patrimonio della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome, era possibile tralasciare un esplicito divieto”. Anche oggi le ragioni xenofone e razziste appaiono limpide.
Sarebbero superabili con l’estensione della revoca della cittadinanza anche per le cittadine e i cittadini iure sanguinis? Oggi sembrerebbe una strada non percorribile, ma è necessario guardare con lungimiranza alla dimensione dinamica dell’ordinamento. Non tantissimi anni fa l’obbligo della rilevazione delle impronte digitali venne introdotta soltanto per gli stranieri, nel giro di pochi anni per avere una semplice carta di identità elettronica ognuno di noi rilascia le proprie impronte. È nota la forza espansiva delle eccezioni, la loro capacità di estendersi in nome delle “ragioni” della sicurezza. Potremmo diventare tutti cittadini dalla cittadinanza precaria, perdendo il diritto di avere davvero i diritti. È urgente, dunque, che si intervenga quanto prima a dichiarare l’illegittimità costituzionale della disciplina della revoca per violazione dell’articolo 22 in combinato disposto con l’articolo 3 della Costituzione.
Laura Ronchetti insegna diritto costituzionale presso l'Università del Molise