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Nell’ambito delle campagne di sensibilizzazione per “ambienti di lavoro sani e sicuri”, l’Agenzia europea per la salute e la sicurezza sul lavoro (Eu-Osha) ha dedicato il biennio 2014-2015 ai rischi psicosociali. Nel nostro paese la campagna è gestita dal Focal Point dell’Agenzia presso l’Inail con il titolo “Ambienti di lavoro sani e sicuri 2014-2015: insieme per la prevenzione e la gestione dello stress lavoro-correlato”. Mentre il titolo ufficiale adottato per l’Italia richiama solo lo stress lavoro-correlato, la campagna è invece rivolta alla prevenzione della generalità dei rischi psicosociali e alla promozione della salute mentale nei luoghi di lavoro. Questa importante iniziativa porta all’attenzione l’esigenza di fare chiarezza sul significato e sull’utilizzo dei termini quali rischi psicosociali, rischio stress lavoro-correlato e benessere organizzativo. Proponiamo quindi alcune riflessioni rivolte sia a chi si occupa professionalmente di salute e sicurezza sia alla generalità dei lavoratori.
Rischi psicosociali: antecedenti o esiti?
Prima di definire i rischi psicosociali è importante una premessa. Come sappiamo, a differenza di quanto avviene nel linguaggio comune, in ambito di salute e sicurezza del lavoro i termini pericolo e rischio non hanno lo stesso significato. Prendendo a riferimento il Testo Unico per la sicurezza e salute sul lavoro (d.lgs.81/2008) consideriamo il pericolo la proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni; il rischio è invece definibile come la probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione. Ad esempio, uno specifico composto chimico, un agente biologico, condizioni particolari di lavoro possono presentare la caratteristica di essere potenzialmente dannose; il rischio ci dirà la probabilità che questa caratteristica potenziale si traduca in un effettivo danno in uno specifico contesto lavorativo. È così anche per i rischi psicosociali? No.
L’uso corrente e la letteratura sui rischi psicosociali, sia in Italia sia all’estero, non sono affatto così rigorosi e il termine viene utilizzato con accezioni diverse. La dicitura “rischi psicosociali” nei fatti è utilizzata per riferirsi sia agli antecedenti e quindi ai fattori che potenzialmente possono causare un danno, sia ai processi che li costituiscono, sia agli esiti che si verificano a seguito di una esposizione ai fattori stessi, come ad esempio l’insorgenza di sintomi psico-fisici. Senza pretesa di esaustività, vediamo alcuni esempi, partendo proprio da due recentissime pubblicazioni dell’Agenzia europea per la salute e la sicurezza sul lavoro. Nella prima, “Calculating the cost of work-related stress and psychosocial risks”, l’Agenzia definisce il rischio psicosociale come il rischio di nocumento al benessere psicologico o fisico del lavoratore che deriva dal disegno del lavoro, dalla gestione e organizzazione del lavoro e dal contesto organizzativo e sociale. Nella guida alla campagna 2014-2015, il riferimento è invece agli esiti. Leggiamo infatti che “per rischi psicosociali si intendono gli effetti negativi in termini psicologici, fisici e sociali derivanti da un’organizzazione e una gestione inadeguate del lavoro, nonché da un contesto sociale inappropriato sul lavoro”.
In ambito nazionale sembra prevalere la prima accezione della locuzione “rischi psicosociali”, quindi l’utilizzo con riferimento agli antecedenti. Bisio (2009) definisce il rischio psicosociale come il potenziale che le caratteristiche della situazione sociale e organizzativa hanno di produrre una diminuzione o di impedire l’aumento del benessere, della salute o dell’incolumità delle persone; in una successiva pubblicazione lo stesso autore affermerà che i rischi psicosociali sono quelli che “come dice la parola, derivano da fenomeni psicosociali, vale a dire fenomeni che esistono quando un insieme di persone interagisce”. Avallone (2011) definisce i rischi psicosociali come rischi non riferibili a pericoli di natura fisica, chimica o biologica, ma riconducibili ad aspetti psicologici e alla progettazione, organizzazione e gestione del lavoro.
Il dibattito se sia più corretto utilizzare il termine “rischi psicosociali” con riferimento agli antecedenti o agli esiti ci appassiona relativamente: i due usi hanno le loro giustificazioni e una storia. Due aspetti sono invece per noi prioritari: il primo, è che si abbia contezza del doppio uso del termine, così che chi lo incontra cerchi di comprendere prioritariamente in quale accezione questo è usato nello specifico contesto; il secondo aspetto è che si arrivi alla la tutela completa del lavoratore, prevenendo e gestendo oltre allo stress lavoro-correlato, anche i possibili casi di violenze, molestie e mobbing.
I rischi psicosociali intesi come antecedenti
Se intendiamo i rischi psicosociali come condizioni potenzialmente rischiose (antecedenti) possiamo elencare, ad esempio, la monotonia del lavoro, i cicli lavorativi eccessivamente brevi, il lavoro notturno, il sovraccarico di lavoro, il basso livello di supporto da colleghi e superiori di fronte a problemi nello svolgimento dell’attività, alta conflittualità. Se utilizzati in questo senso, i rischi psicosociali sono anche menzionati come “fattori di rischio psicosociale” o ancor più genericamente come “fattori lavorativi stressogeni”.
Impossibile produrre un elenco definitivo dei rischi psicosociali, destinato a restare temporaneo e provvisorio: esso riflette da un lato i risultati della ricerca scientifica, modificandosi e arricchendosi secondo i continui progressi e sviluppi di questa, dall’altro riflette i cambiamenti dello scenario del mercato del lavoro e della popolazione lavorativa; ad esempio al giorno d’oggi anche l’incertezza rispetto al futuro lavorativo (collegata al crescente ricorso a contratti a termine oltre che alla congiuntura economica) è annoverabile tra i fattori di rischio psicosociale.
C’è grande consenso nel ritenere che rispetto ai rischi tradizionali (quali ad esempio il rischio fisico, chimico ecc.), i rischi psicosociali abbiano la caratteristica di poter incidere negativamente sia sulla salute dei lavoratori, attraverso il processo di stress, (ad esempio procurando uno stato conclamato di stress o innescando e/o esacerbando particolari patologie, ad esempio cardiocircolatorie o psichiche) sia sulla sicurezza (ad esempio interferendo con i livelli di attenzione e vigilanza e aumentando quindi la probabilità di incidenti per distrazioni o errori). Inoltre, i fattori psicosociali vengono considerati trasversali rispetto ai settori produttivi, ai reparti e ai tipi e livelli di occupazione: non si concentrano, ad esempio, nel lavoro operaio o in quello impiegatizio, ma si trovano ugualmente distribuiti nei vari contesti e tipi di lavoro in base al fatto che il modo di organizzare il lavoro, le sue dimensioni relazionali e comunicative, i tipi di leadership, i livelli cognitivi delle richieste, possono presentare una forte somiglianza gestionale.
I rischi psicosociali per una completa tutela: non solo stress lavoro-correlato
Come abbiamo anticipato, un aspetto importante quando ci si riferisce ai rischi psicosociali è da registrare una prassi che ci viene da oltralpe: considerare una serie di fenomeni, quali principalmente lo stress lavoro-correlato, il mobbing e le vessazioni, la violenza fisica e le molestie sessuali. Anche l’attuale campagna dell’Agenzia Europea sui rischi psicosociali affronta sia lo stress lavoro-correlato, sia le violenze (fisiche e psicologiche, compreso il mobbing), sia le molestie. La recente pubblicazione per Eurofound del rapporto “Violence and harassment in European workplaces: Extent, impacts and policies”, conferma che tali temi sono normalmente affrontati nell’ambito di salute e sicurezza del lavoro.
In precedenza, possiamo ricordare che la gestione dei rischi psicosociali è stata il focus del progetto “PRIMA-EF Psychosocial RIsk Management - European Framework” (Gestione del rischio psicosociale. Quadro europeo di riferimento), finanziato dall’Unione Europea e dall’Organizzazione mondiale della sanità. Il progetto è stato attuato con la partecipazione di importanti università e istituti tecnico- scientifici, tra i quali, per l’Italia, l’Ispesl (ente successivamente accorpato all’Inail). Il progetto ha affrontato sia le tematiche dello stress lavoro-correlato, sia quelle delle violenza, sia quelle molestie e delle discriminazioni, fornendo una serie di indicazioni per la prevenzione e la gestione cui faremo riferimento nel prossimo paragrafo.
Violenze, mobbing e molestie come tematiche di salute e sicurezza del lavoro
In Italia, mentre lo stress lavoro-correlato è stato specificamente normato, per quanto riguarda la valutazione dei rischi psicosociali intesi come insieme dei fenomeni sopra richiamati non abbiamo una normativa specifica valida per tutti i luoghi di lavoro. Esistono invece degli accordi di settore per singoli comparti. Il nostra parere è che sia doveroso affrontare tutti i rischi psicosociali in virtù del generale obbligo del datore di lavoro di prevenire e ridurre "tutti i rischi" con riferimento allo stato del progresso tecnico-scientifico: i materiali prodotti dal progetto PRIMA-EF o la già menzionata guida alla campagna Eu-Osha 2014-2015 sono chiare indicazioni derivanti dal mondo tecnico-scientifico! In tal senso si sono espressi ad esempio il procuratore Guariniello e anche altri giuristi. Ricordiamo, come peraltro già osservato altrove, che se la formazione obbligatoria per il Responsabile del servizio prevenzione e protezione (Rspp), prevede espressamente i rischi di natura ergonomica e psicosociale è perché la prevenzione deve riguardare anche tali rischi (art. 2, comma 4 del d.lgs. 195/2003). Banalmente, se così non fosse, non sarebbe necessario formare tutti gli Rspp su tali argomenti.
Stress lavoro-correlato, mobbing, violenze e molestie
Vogliamo ora affrontare brevemente lo stress lavoro-correlato, il mobbing, le violenze e le molestie, cercando di delinearne i principali contenuti distintivi e le peculiarità con riferimento alle attività per la tutela di salute e sicurezza dei lavoratori. Lo stress lavoro-correlato è il fenomeno maggiormente conosciuto e per il quale la normativa italiana prevede lo specifico obbligo di valutazione e gestione del rischio, compresi i requisiti metodologici minimi per la valutazione stessa. Lo stress lavoro-correlato consiste nello stato di stress presente nel lavoratore e scaturente da cause lavorative; tuttavia, non comprende fenomeni legati al mobbing e violenze in genere, né lo stress generato da fattori extra-lavorativi (ad esempio di tipo sociale e familiare). Va evidenziato che è dovere del datore di lavoro assicurarsi che le condizioni lavorative non favoriscano l’insorgenza dello stress lavoro-correlato, pertanto è necessario valutare prioritariamente il rischio, non la presenza o assenza di stress lavoro-correlato tra i lavoratori. L’obbligo di valutazione e gestione del rischio stress lavoro-correlato è esplicitamente sancito dall’art. 28 del d.lgs. 81/2008 con rimando ai contenuti dell’Accordo europeo tra le parti sociali sullo stress lavoro-correlato dell’8 ottobre 2004.
La valutazione deve essere conforme a requisiti minimi stabiliti dalla Commissione consultiva permanente sulla salute e sicurezza del lavoro che ha previsto due fasi sequenziali: la prima è la cosiddetta valutazione preliminare, sempre obbligatoria; la seconda fase è eventuale e di approfondimento: risulta infatti connessa a risultanze e condizioni di criticità evidenziate dalla prima fase e ad interventi correttivi che sebbene attuati non sono risultati efficaci. In breve, la valutazione preliminare consiste nella rilevazione di indicatori di rischio da stress lavoro-correlato oggettivi e verificabili e, dove possibile, numericamente apprezzabili. Tali indicatori vengono individuati come appartenenti quanto meno a tre distinte famiglie: eventi sentinella (ad esempio turn over, assenze per malattia ecc.), fattori di contenuto del lavoro (carichi e ritmi di lavoro, ambiente e attrezzature ecc.) e fattori di contesto del lavoro (autonomia decisionale e controllo, conflitti interpersonali ecc.). La distinzione tra fattori di contenuto e di contesto del lavoro fa riferimento a una nota classificazione dei fattori di rischio psicosociale adottata dall’Agenzia Europea per la salute e la sicurezza del lavoro nelle proprie pubblicazioni e mutuata da studi precedenti.
Per quanto riguarda il ruolo delle figure aziendali, vogliamo evidenziare che è obbligatorio, oltre alla consultazione preliminare del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls), come per tutti i rischi, che lo stesso Rls o i lavoratori (anche a campione) vengano ascoltati sui fattori di contesto e contenuto del lavoro di cui sopra: questo espresso e marcato coinvolgimento dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti (della struttura o territoriali), caratterizza e rende peculiare la valutazione del rischio da stress lavoro-correlato rispetto a quella degli altri rischi; per la valutazione degli altri rischi le norme prevedono puntualmente solo la consultazione preliminare dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls, Rlst ecc.), mentre la partecipazione dei lavoratori è richiamata solo genericamente nelle misure di tutela.
Tra le forme di stress lavoro-correlato, troviamo il burnout che vede tra i sintomi caratterizzanti le sensazioni personali di esaurimento emotivo e cinismo, la disaffezione rispetto al lavoro e un senso di ridotta efficienza e professionalità rispetto agli standard personali e a precedenti periodi lavorativi. Ricordiamo la basilare trattazione di Maslach e Leiter del 1997, che riconosce l’origine del burnout essenzialmente in fattori contestuali organizzativi, mentre è stato abbandonato il collegamento con le caratteristiche di personalità del singolo lavoratore presenti nelle prime concettualizzazioni del fenomeno. Il burnout si differenzia dalle altre forme di stress lavoro- correlato essenzialmente per gli esiti soggettivi; Maslach e Leiter identificano i principali fattori organizzativi disfunzionali all’origine del burnout, tuttavia questi sono sostanzialmente riconducibili a quelli considerati per il rischio stress lavoro correlato e per il benessere organizzativo, che esamineremo in seguito.
Il mobbing è stato definito come “atti, atteggiamenti o comportamenti di violenza morale o psichica in occasione di lavoro, ripetuti nel tempo in modo sistematico o abituale, che portano a un degrado delle condizioni di lavoro idoneo a compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore” (Presidenza del Consiglio dei ministri, Ministero della Funzione pubblica, 2003). È talvolta indicato come “violenza morale” e si tratta di un processo in escalation nel corso del quale l’individuo mobbizzato finisce per sentirsi senza difese e senza alleanze. Può essere attuato dai colleghi (mobbing orizzontale) o dai superiori (mobbing verticale); la finalità è quella dell’alienazione dai compiti e dalle relazioni sociali in ambito lavorativo fino a poter arrivare al licenziamento e/o all’insorgenza di patologie fisiche e psichiche nella vittima. L’accertamento del fatto che si sia istaurato un processo di mobbing implica l’accertamento della finalità lesiva delle azioni dei persecutori, dal perdurare nel tempo delle stesse e dall’emergenza di un danno nella vittima.
Le violenze sul lavoro si riferiscono normalmente ad atti violenti esercitati da persone con cui il lavoratore entra in contatto per motivi di lavoro: clienti, utenti, pazienti, allievi, colleghi etc. Possono consistere in aggressioni fisiche o anche solo di natura verbale, talora anche con contenuti a carattere sessuale. Rispetto al mobbing, la violenza sul luogo di lavoro sembra connotata più frequentemente da aggressioni fisiche e aperte minacce, inoltre non ha quel carattere di continuità che contraddistingue il mobbing; le motivazioni e le finalità sono normalmente in funzione di situazioni contingenti: può essere il caso di una richiesta di rimborso da parte di un cliente che poi, non accontentato, passa a minacciare il lavoratore ritenuto responsabile. Spesso, solo l’esame di singole situazioni effettive può far comprendere se si tratti di violenza generica o di mobbing, in quanto facilmente possono esservi sovrapposizioni.
Per la prevenzione e la gestione è in primo luogo importante acquisire la conoscenza di tali fenomeni nella propria organizzazione, ad esempio mettendo a punto dei sistemi di monitoraggio e registrazione degli eventi; è inoltre possibile condurre indagini con strumenti diversi quali questionari, interviste individuali o in gruppo, check list, osservazione diretta. Oltre a riguardare specificamente i casi di mobbing, molestie o violenze in genere, le indagini possono riguardare molteplici fattori; a riguardo, nella guida PRIMA-EF i fattori da considerare vengono classificati in effetti (ad esempio: rotazione del personale, assenze per malattia), fattori organizzativi (cultura organizzativa, relazioni industriali) e fattori correlati al lavoro (orario di lavoro, autonomia). Si considerano tali fattori in quanto fenomeni come mobbing, molestie e violenze, oltre ad avere cause contingenti e specifiche e una responsabilità personale degli autori, risentono di aspetti generali dell’ambiente di lavoro o della mansione.
Per la prevenzione primaria del mobbing da parte di soggetti interni, sono state suggerite l’adozione di politiche aziendali mirate e codici etici, le azioni di miglioramento generale dell’ambiente psicosociale, la formazione ai dirigenti e ai lavoratori. Come prevenzione secondaria e terziaria possono essere previste procedure per la denuncia e la risoluzione dei casi, nonché interventi di assistenza psicologica alle vittime. La prevenzione della violenza richiede un’attenta valutazione dei rischi, l’adozione di procedure aziendali, la formazione del personale addetto al contatto con la clientela/l’utenza per renderlo più competente ad evitare un’escalation della violenza, l’intervento di sostegno dedicato nel caso che il fenomeno purtroppo si sia verificato.
Anche le possibili molestie sessuali possono essere prevenute e gestite attraverso forme di monitoraggio, l’ adozione di una chiara politica di condanna delle stesse, procedure di denuncia e gestione dei casi nel rispetto della riservatezza delle parti coinvolte, assistenza psicologica se necessaria. Per tutti i rischi psicosociali, è importante, oltre ai contenuti delle misure adottate, il fatto che le stesse siano elaborate e stabilite attraverso un processo allargato che veda la partecipazione di tutti gli attori aziendali e i lavoratori interessati nonché, se necessario, di operatori con specifiche competenze psicosociali (vedasi anche art. 28, comma2, l.d del d.lgs. 81/2008).
Il benessere organizzativo
Il benessere organizzativo (o salute organizzativa) sarà qui affrontato nella prospettiva del prof. Francesco Avallone, l’autore che nel nostro paese, insieme a eminenti collaboratori, ha fornito il contributo maggiormente organico e approfondito sull’argomento, nonché di maggior impatto: ai lavori di Avallone e collaboratori sono stati ispirati programmi e normative importanti che hanno investito i lavoratori del pubblico impiego a partire dai primi anni duemila, consentendo la raccolta di una imponente mole di dati.
Avvertiamo che in svariati testi la locuzione “benessere organizzativo” è utilizzata in senso generico e meno formalizzato. Come per i rischi psicosociali, anche in questo caso è fondamentale che chi incontra o utilizza la locuzione “benessere organizzativo” o “salute organizzativa” abbia chiaro a quale accezione si fa riferimento. Lo stesso Avallone rileva che agli inizi degli anni 2000 “benessere organizzativo” era utilizzato con due accezioni: nella prima, per designare lo stato soggettivo di coloro che lavorano in uno specifico contesto organizzativo, nella seconda per intendere l’insieme dei fattori che determinano o contribuiscono a determinare il benessere organizzativo. L’autore svilupperà poi il costrutto di benessere organizzativo in questa seconda accezione.
Con una prima approssimazione, e in termini semplici, si può definire il benessere organizzativo come la capacità di un’organizzazione di promuovere e mantenere il più altro grado di benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori in ogni tipo di occupazione. In modo più puntuale e articolato, il benessere organizzativo o salute organizzativa vengono definiti come l’insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la dinamica della convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando la qualità della vita e il grado di benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative. Con l’approccio del benessere organizzativo, che prende le mosse da precedenti contributi multidisciplinari internazionali, assistiamo a un cambiamento di focus: dalla tutela della salute del singolo alla tutela della salute della comunità lavorativa considerata nel suo complesso e come espressione del funzionamento generale dell’organizzazione.
Il focus, in altre parole, è sulle caratteristiche dinamiche dell’organizzazione che possono e dovrebbero garantire il benessere dei lavoratori che ne fanno parte. Un’altra importante differenza è l’accento sulla promozione della salute (sia dell’organizzazione sia dei lavoratori) intesa come stato di benessere anziché l’accento sulla prevenzione dei rischi psicosociali; quest’ultima, infatti, anche se di tipo primario, è rivolta ad evitare il verificarsi degli specifici fenomeni di stress lavoro correlato, mobbing e violenze), sebbene, come vedremo, il perseguire del benessere organizzativo sia funzionale anche alla prevenzione dei rischi psicosociali. Altro aspetto importante, il benessere organizzativo è considerato un processo dinamico e al quale concorrono un certo numero di dimensioni da valutarsi in base alle percezione che ne hanno i lavoratori coinvolti e da promuovere con la piena partecipazione di questi e del management.
Nei primi anni duemila, questa concezione del benessere organizzativo e i possibili benefici scaturenti per l’efficienza e la produttività di un’organizzazione, oltre che sui lavoratori, è stata alla base un’iniziativa della Presidenza del Consiglio dei ministri tesa a migliorare la qualità del lavoro pubblico: il programma Cantieri, che ha coinvolto su base volontaria diverse pubbliche amministrazioni in una serie di ricerche-intervento. Quando già iniziavano a pervenivano i risultati di queste ricerche intervento, il benessere organizzativo è diventato anche stato l’oggetto della di una specifica direttiva della Presidenza del Consiglio diventata famosa come “direttiva benessere”: la direttiva del 24.3.2004 “Misure finalizzate al miglioramento del benessere organizzativo nelle pubbliche amministrazioni” (G.U. n. 80 del 5 aprile 2004).
Attualmente, le indagini sul benessere organizzativo e il perseguimento dello stesso nel settore pubblico sono regolate da una serie di norme successive (ad esempio la cosiddetta “riforma Brunetta”, il d.lgs. 150/2009), ma vogliamo esaminare la direttiva benessere come tappa fondamentale di un processo di evoluzione culturale e per diffondere il senso proprio del concetto di benessere organizzativo. Non è invece questo il contesto per una disamina del reale impatto, in termini di successo/insuccesso, della direttiva e in generale delle norme e delle azioni successive in tema di benessere organizzativo nel settore pubblico.
La direttiva specifica l’importanza per le organizzazioni pubblico non solo del raggiungimento degli obiettivi di produttività ed efficacia, ma anche di realizzare, per i propri dipendenti, un insieme di ambienti e relazioni atti a contribuire al miglioramento della qualità della vita lavorativa. Le amministrazioni vengono sollecitate, “adottando le opportune forme di relazioni sindacali”, a valutare e migliorare il livello di benessere al proprio interno rilevando le opinioni dei dipendenti e e realizzare le opportune misure di miglioramento allo scopo di: “valorizzare le risorse umane, aumentare la motivazione dei collaboratori, migliorare i rapporti tra dirigenti e operatori, accrescere il senso di appartenenza e di soddisfazione dei lavoratori per la propria amministrazione; rendere attrattive le amministrazioni pubbliche per i talenti migliori; migliorare l’immagine interna ed esterna e la qualità complessiva dei servizi forniti dall’amministrazione; diffondere la cultura della partecipazione, quale presupposto dell’orientamento al risultato, al posto della cultura dell’adempimento; realizzare sistemi di comunicazione interna” e, infine, “prevenire i rischi psicosociali di cui al d.lgs. 626/94”, all’epoca vigente.
La Direttiva elenca 12 variabili considerate cruciali ai fini del benessere organizzativo. La bontà della scelta delle variabili elencate trova riscontro nella analisi dei risultati ai questionari su un vasto campione di lavoratori pubblici, come documentato compiutamente in Avallone e Paplomatas (2005). In seguito, troveremo in letteratura degli elenchi lievemente differenti, pur con riferimento allo stesso modello generale. Va inoltre considerato che in organizzazioni diverse il peso di ciascuna variabile nel contribuire al benessere organizzativo possa essere diverso o che per specifici gruppi o ambienti lavorativi sia opportuno considerarne di ulteriori. Ad ogni modo, il modello a 12 variabili sembra già sufficientemente robusto. Le variabili che contribuiscono al benessere organizzativo riportate alla direttiva benessere sono:
A. caratteristiche dell’ambiente nel quale il lavoro si svolge, auspicato come salubre, confortevole e accogliente;
B. chiarezza degli obiettivi organizzativi e coerenza tra enunciati e pratiche organizzative;
C. riconoscimento e valorizzazione delle competenze: è auspicato che l’organizzazione riconosca e valorizzi le competenze e gli apporti dei dipendenti, stimoli nuove potenzialità, assicurando adeguata varietà dei compiti ed autonomia nella definizione dei ruoli organizzativi nonché pianificando adeguati interventi di formazione;
D. comunicazione intra-organizzativa circolare, comprendente l’ascolto delle istanze dei dipendenti e lo stimolo al senso di utilità sociale del loro lavoro;
E. circolazione delle informazioni, per la quale i dipendenti hanno a loro disposizione le informazioni pertinenti per il loro lavoro;
F. prevenzione degli infortuni e dei rischi professionali;
G. clima relazionale franco e collaborativo;
H. scorrevolezza operativa e supporto verso gli obiettivi: si auspica che l’amministrazione assicuri la scorrevolezza operativa e la rapidità di decisione, supporta l’azione verso gli obiettivi;
I. giustizia organizzativa: nel rispetto dei contratti collettivi nazionali di lavoro, vengono auspicate equità di trattamento a livello retributivo, di assegnazione di responsabilità, di promozione del personale e di attribuzione dei carichi di lavoro;
J. apertura all’innovazione, intesa come apertura all’ambiente esterno e all’innovazione tecnologica e culturale.
K. stress: è auspicato che l’organizzazione tenga sotto controllo i livelli percepiti di fatica fisica e mentale nonché di stress.
L. conflittualità: è previsto che l’organizzazione gestisca l’eventuale presenza di situazioni conflittuali manifeste o implicite.
Per accrescere il benessere organizzativo, la Direttiva indica vari passaggi, che sono tipici dei processi di cambiamento organizzativo: il primo step consiste nell’individuazione dei ruoli e nella definizione della procedura di rilevazione e d’intervento; vengono poi predisposti gli strumenti di rilevazione, raccolti ed elaborati i dati; infine, restituiti i risultati e steso il report. Successivamente, viene definito il piano degli interventi di miglioramento nonché il monitoraggio e la verifica di quest’ultimo.
Come strumento di rilevazione del benessere, già il programma Cantieri forniva il Questionario multidimensionale della salute organizzativa (MOHQ) e rimandava a un manuale, scaricabile gratuitamente, a cura di Avallone e Bonaretti (2003). Evidenziamo che la rilevazione della percezione dei lavoratori è un elemento fondamentale.
Sulla base delle rilevazioni svolte le amministrazioni devono, sentite le organizzazioni sindacali, adottare un piano di miglioramento del benessere organizzativo che può riguardare uno o più dei seguenti aspetti: struttura e ruoli organizzativi, innovazione tecnologica, processi organizzativi, politiche di gestione delle risorse umane; comunicazione interna ed esterna, modifica di norme e procedure e cultura organizzativa. Riconosciamo, in sostanza, le aree d’intervento tipiche dei processi di sviluppo organizzativo. Tali interventi, nella quasi totalità delle situazioni, finiscono per investire aspetti della strategia generale dell’organizzazione e per questo motivo, riteniamo essenziale che ci sia una forte committenza da parte dei vertici e della dirigenza. Possiamo dire che indagare la salute organizzativa costituisce non una valutazione in senso proprio che esista in una diagnosi o peggio in un punteggio; piuttosto vuole essere l’avvio di un articolato e approfondito percorso di riflessione sulle linee strategiche dell’organizzazione, a partire dalle percezioni degli attori che sono chiamate a realizzarle. In altri termini, l’indagine del benessere organizzativo in una determinata organizzazione non dovrebbe essere intesa come una ricerca a fini conoscitivi, ma come l’inizio di un processo teso al miglioramento.
Considerazioni conclusive
Abbiamo messo in luce l’importanza di distinguere tra i due modi di intendere i rischi psicosociali, rispettivamente come antecedenti (ad esempio: lavoro monotono, sovraccarico lavorativo) e come insieme di fenomeni quali stress lavoro-correlato, mobbing, violenze e molestie. Ugualmente abbiamo evidenziato che in termini più rigorosi e stringenti, benessere organizzativo e salute organizzativa fanno riferimento a un modello di funzionamento organizzativo che produce benessere nei dipendenti.
Concludiamo con alcune riflessioni sui temi affrontati. In primo luogo è evidente l’esistenza di un filo conduttore che lega il rischio stress lavoro correlato ai rischi psicosociali e al benessere organizzativo, in quanto tutti e tre dipendono da fattori comuni legati sempre al contenuto del lavoro e soprattutto dal contesto nel quale esso viene svolto; i fattori disfunzionali, quando presenti, tendono poi a esitare in conseguenze simili (ad esempio: conflittuali interazioni tra i lavoratori, compresi i dirigenti, aumento delle malattie e dei comportamenti contro produttivi ecc.); infine emerge che le azioni migliorative (informative, formative, tecnico-procedurali e propriamente riorganizzative) sono per buona parte comuni.
In secondo luogo, il rischio stress lavoro correlato rappresenta una fattispecie, un ambito specifico, nel più ampio campo dei rischi psicosociali, che comprendono, come abbiamo visto, anche altri importanti aspetti come il mobbing e le violenze. L’approccio del benessere organizzativo si pone su un piano ancora più generale dei primi due, in quanto non affronta solo i singoli temi costitutivi dei precedenti rischi (stress, mobbing ecc.) ma guarda all’organizzazione nel suo complesso e a fattori che, come abbiamo accennato in riferimento alle 12 variabili indicate, comprendono e allargano gli spettri di valutazione già previsti negli altri due. Sottolineiamo ancora che la prospettiva del benessere organizzativo segna un importante passaggio dalla prevenzione (di malattia, malessere, infortuni) alla promozione della salute e del benessere.
A ogni modo, va rilevata la crescente tendenza, almeno a livello di indicazioni provenienti sia dal mondo scientifico sia dall’Agenzia europea per la salute e sicurezza sul lavoro, a suggerire la promozione della qualità generale dell’ambiente di lavoro dal punto di vista psicosociale anche al fine di prevenire i rischi psicosociali quali stress lavoro correlato, il mobbing, le violenze e le molestie. Tale tendenza è in armonia con azioni direttamente ispirate al benessere organizzativo, e suggerimenti in tal senso (accanto ad azioni preventive specifiche per stress lavoro correlato, violenze, mobbing e molestie) vengono dai già richiamati progetto PRIMA-EF e dalla guida alla campagna europea 2014-2015 sui rischi psicosociali.
Dal punto di vista scientifico, oltre ai lavori già citati, vogliamo anche ricordare il costrutto di “clima di sicurezza psicosociale”. Questo è inteso come attenzione specificamente rivolta al benessere psicosociale dei lavoratori da parte del management che bilancia tali aspetti con le esigenze di produzione e produttività. Un buon clima di sicurezza psicosociale sarebbe protettivo rispetto al possibile verificarsi di fenomeni di stress lavoro-correlato, violenza e mobbing. Una strada promettente nella prevenzione dei rischi psicosociali e nella promozione di un clima positivo nell’ambiente di lavoro sembra essere lo sviluppo delle capacità e dei comportamenti dei manager tramite particolari programmi formativi.
* Psicologo presso Rfi. Componente gruppi di lavoro sul rischio stress lavoro-correlato dell’Ordine Psicologi del Lazio e della Società italiana psicologia del lavoro e delle organizzazioni
** Aspp e membro supplente Commissione consultiva permanente del ministero delle Infrastrutture. Componente gruppi di lavoro sul rischio stress lavoro-correlato dell’Ordine Psicologi del Lazio e della Società italiana psicologia del lavoro e delle organizzazioni
AVVERTENZA: il presente articolo riflette le opinioni personali degli autori e non è impegnativo per le organizzazioni di appartenenza.