PHOTO
Riletture per l'estate: un'analisi pubblicata a inizio 2015.
C’è un aspetto fondamentale che accomuna i diversi filoni di letteratura che affrontano l’una o l’altra prospettiva della riorganizzazione del lavoro. Si tratta del ruolo centrale attribuito alla conoscenza e, quindi, alla gestione della stessa all’interno del processo produttivo al fine di trasformarla in competenza, innescando un ciclo di apprendimento continuo. In generale, la creazione, la condivisione e l’utilizzazione della conoscenza comportano frizioni e costi di transazione elevati, che è necessario superare per assicurare il “costrutto intenzionale” dei lavoratori che consente di trasformare la conoscenza in competenza.
Queste frizioni possono essere superate quando il bene conoscenza viene considerato e gestito come un bene comune. Per ridurre i costi di acquisizione e piena utilizzazione della conoscenza, i lavoratori debbono potersi identificare come appartenenti a una comunità (più precisamente a una “comunità di conoscenza”).
In generale, dunque (come già aveva pienamente compreso negli anni cinquanta l’imprenditore Adriano Olivetti), l’innovazione (che deriva dall’applicazione della conoscenza) richiede che i lavoratori si identifichino come appartenenti a una comunità e riconoscano la conoscenza come un patrimonio comune, da accrescere e gestire assieme all’impresa, un patrimonio cui tutti possano attingere e al quale tutti siano chiamati a contribuire, e l’innovazione che ne deriva come il frutto di quel comune patrimonio.
Il ruolo centrale della gestione della conoscenza come bene comune nel favorire l’innovazione comporta, a sua volta, che i lavoratori assumano una nuova attitudine cruciale, una specifica competenza che si può definire con il termine di partecipazione cognitiva, ovvero “la volontà e la capacità di acquisire, condividere e utilizzare la conoscenza (propria e dell’organizzazione) per migliorare i prodotti e i processi produttivi e organizzativi” (Leonello Tronti, mi si perdoni l’autocitazione).
Il problema fondamentale, nella transizione da un’organizzazione tradizionale a una innovativa, è per l’appunto quello di rafforzare la partecipazione cognitiva di dirigenti e lavoratori. A questo preciso riguardo, lo scorso 23 gennaio il Dipartimento di Economia e diritto della Sapienza Università di Roma ha ospitato la giornata di studio “Le persone e la fabbrica. Il World Class Manufacturing dai principi all’applicazione. Il caso Fiat”.
La ricerca della Fim Cisl, da cui la giornata ha preso le mosse, ha rilevato le opinioni dei lavoratori Fiat dopo 8 anni di adozione del modello di organizzazione Wcm (“Produzione industriale di ‘classe’ mondiale”, ovvero capace di tenere testa alla competizione globale), che si sintetizza nello slogan "zero scarti, zero interruzioni, zero difetti".
Il Wcm chiede ai lavoratori di partecipare con l’impresa a organizzare il luogo di lavoro, l’ergonomia, la sicurezza e lo stesso processo produttivo; e organizza il lavoro operaio in team polifunzionali di 6 lavoratori più un team leader, che ruotano su più mansioni e assumono responsabilità sui risultati del lavoro. Il modello sollecita inoltre i suggerimenti migliorativi dal basso, anche al di là delle operazioni di diretta responsabilità dei team.
I risultati che scaturiscono dalla ricerca Fim (che ha realizzato circa 5.000 interviste in 24 stabilimenti Fiat in Italia, quasi il 10 per cento dei dipendenti) sono vari. Molti sono contenti, in genere quelli che applicano il sistema da più tempo e hanno visto il loro lavoro cambiare davvero. Sono anche orgogliosi se hanno dato suggerimenti migliorativi che sono stati accolti. Un altro effetto importante è quello del riconoscimento nell’azienda: quasi tutti gli intervistati pensano che il prodotto Fiat sia di buona qualità e che il Lingotto sia un buon posto dove lavorare.
Ma non è tutto oro quel che luce. Non è dato sapere quanti dei rispondenti sono iscritti o simpatizzanti Fim e, comunque, molti lavoratori lamentano il fatto che si sono ridotti i tempi morti (un effetto tipico della lean: se hai tutto il lavoro organizzato in modo ergonomico e hai zero interruzioni, anche se la fatica si riduce il tempo di lavoro diventa più denso, meno poroso). Non solo. Il fatto che si chieda loro anche di pensare a migliorare l'ambiente o il processo o il prodotto è per alcuni fonte di stress.
Non meno importante, nel dibattito che si è aperto sul tema, è il difficile rapporto tra il Wcm e il complesso reticolo giuridico-sindacale che regola il lavoro in Italia: un reticolo costruito attorno alla fabbrica fordista, all’operaio esecutore di compiti stabiliti gerarchicamente, alle (troppo spesso formali) declaratorie delle qualifiche contrattuali, alle norme che restringono la possibilità della rotazione ecc.
Si tratta di un punto importantissimo. Il diritto regola di norma interessi ben costituiti, e la contrattazione collettiva interessi ben rappresentati. Quando però entra in campo l’innovazione, gli interessi si trasformano e le rappresentanze impiegano tempi anche lunghi a riposizionarsi. L’innovazione sconvolge le regole esistenti e crea periodi anomici di “stato nascente” (per dirla con Alberoni), nei quali i vecchi blocchi di potere sono messi al vaglio e i nuovi non sono ancora abbastanza forti da poter varare regole chiare e dettagliate.
L’innovazione apre spazi de jure condendo che poco piacciono sia ai giuristi sia a quei sindacalisti che vorrebbero mettere la certezza dei diritti prima di quella dei risultati aziendali. Anche quando, come nel caso del Wcm, i risultati contemplano due veri e propri “miracoli industriali”. Il primo è il passaggio in pochi anni dello stabilimento di Pomigliano dalla posizione di fanalino di coda nell’ambito Fiat in Italia, in termini di produttività, a quella di primo della classe, non solo in Italia, ma in tutta Europa.
Il secondo è che Chrysler non solo ha evitato la bancarotta, ma è anzi ripartita con slancio, proprio grazie all'applicazione del modello organizzativo Fiat: è il Wcm made in Italy che ha risanato gli impianti americani del gruppo, non viceversa. Questo lo ha capito bene anche Obama, che ha finanziato l'operazione e si è visto restituire il denaro pubblico prestato con 5 anni di anticipo.
E lo ha capito ancor meglio il sindacato dell’automobile americano, United Automobile Workers, che oltre a costituire insieme a Chrysler la Wcm Academy, un centro avanzato di formazione e ricerca sull’applicazione del Wcm e sul miglioramento continuo del lavoro, appena l’azienda si è ripresa, ha tolto da Chrysler i suoi dirigenti che avevano partecipato alla riorganizzazione e li ha spostati nelle altre aziende automobilistiche Usa (Ford, General Motors ecc.), a diffondere anche lì il verbo Wcm.
Già nel 2006, Riccardo Leoni, Nicola Acocella e chi scrive, in un manifesto firmato da molti, ma ignorato dalla politica e dalle relazioni industriali, avevano richiamato l’urgenza di un patto sociale sulla riorganizzazione del lavoro alla luce dei nuovi modelli partecipativi. Il manifesto invocava un patto nazionale tripartito (dunque, un passo significativo nella direzione di un nuovo diritto), che facesse da cornice a una stagione di contrattazione decentrata di applicazione di quei principi. Allora i tempi non erano maturi, ma la ricerca Fim e i risultati di Pomigliano e Chrysler ci dicono che oggi finalmente lo sono.
* Professore di Economia del lavoro all’Università Roma Tre