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La valutazione del rischio stress lavoro-correlato è ancora largamente sconosciuta nelle imprese metalmeccaniche italiane. Dal gennaio 2011, ossia da quando è entrata in vigore la metodologia deliberata dal ministero del Lavoro, la valutazione è stata realizzata solo nel 47,6 per cento delle aziende: nel 20 per cento è in corso, mentre per un’azienda su tre non è iniziata. A dirlo è il volume “Il rischio stress lavoro-correlato nel settore metalmeccanico”, curato dal ricercatore dell’Associazione Trentin Daniele Di Nunzio e pubblicato da Ediesse, che viene presentato martedì 31 marzo a Roma. Il volume riporta un’indagine promossa dalla Cgil nazionale e dalla Fiom Cgil, condotta dall’Associazione Trentin e realizzata con il finanziamento del Fapi (Fondo formazione piccole e medie imprese) su un campione di 237 Rls del settore metalmeccanico, cui è stato somministrato (nei primi mesi del 2014) uno specifico questionario.
La ricerca evidenzia le gravi mancanze in materia: il 55 per cento degli Rls si dichiara insoddisfatto del modo in cui l’azienda tratta i rischi psicosociali, il 45 per cento non ha ricevuto una formazione specifica sul rischio stress lavoro-correlato (tra le “agenzie” di formazione la più attiva sono i sindacati, mentre latitano le associazioni datoriali, le Asl e le istituzioni pubbliche in genere). E anche nelle aziende in cui la valutazione del rischio stress lavoro-correlato si realizza, le cose non vanno così bene: in quasi il 40 per cento delle imprese gli Rls non sono stati coinvolti, mentre nel 17 per cento il loro ruolo è stato solo marginale. La ricerca, infine, mostra anche che le aziende non prendono in considerazione tutti gli indicatori oggettivi indicati dal ministero come obbligatori per una buona valutazione, come gli eventi-sentinella (esaminati solo dal 58 per cento delle aziende) e i fattori di “contesto” del lavoro (solo dal 48 per cento).
“Nel settore industriale i rischi per la salute dei lavoratori sono molti e non sono solo fisici” spiega l’autore della ricerca Daniele Di Nunzio: “I ritmi serrati, l’utilizzo dei macchinari, la catena di montaggio, i turni, sono tutti fattori che mettono una forte pressione sul lavoratore. Fattori che possono comportare danni alla salute psicologica e anche un maggiore rischio di incidenti”. Il sindacato, gli Rls in particolare, ha un ruolo fondamentale nella sfida per la tutela della salute dei lavoratori: la ricerca mostra che “quando gli Rls sono coinvolti nella gestione del rischio stress emergono meglio i problemi e le soluzioni. È scarsa anche l’attenzione verso la percezione ‘soggettiva’ dei lavoratori, che invece dovrebbero essere i primi a essere coinvolti, visto che l’analisi dei rischi legati allo stress non può certo prescindere dall’ascolto del loro punto di vista”.
Esistono purtroppo numerosi ostacoli per il coinvolgimento di Rls e lavoratori, perché la maggior parte delle aziende punta più ad abbassare i costi che alla qualità del lavoro. “In molte imprese italiane – riprende Di Nunzio – manca la capacità di puntare davvero sulla qualità della produzione, di valorizzare ogni singolo aspetto del ciclo produttivo, a partire dall’innovazione dei processi, dal lavoro quotidiano delle persone, dalla facoltà di creare un clima cooperativo”. La cultura della sicurezza, conclude l’autore della ricerca, si fonda “sul dialogo e sulla collaborazione tra tutti gli attori, sia all’interno delle aziende, considerando i lavoratori, i sindacati, i medici, i dirigenti, sia con l’esterno, considerando il ruolo di supporto e controllo delle istituzioni”.
La presentazione dell’indagine si tiene martedì 31 marzo a Roma, presso la sede della Cgil nazionale (Corso d’Italia 25), all’interno della giornata di studio “Rischi psicosociali in Italia e in Europa: quali percorsi per la tutela dei lavoratori?”. La giornata si articola in due parti. La prima (dalle 10 alle 13) vede la presentazione del volume e una tavola rotonda sul tema specifico del rischio stress lavoro-correlato: partecipano Raffaele Minelli e Daniele Di Nunzio (Associazione Trentin), Eliana Como (Centro studi Fiom), Marco Bottazzi (Inca Cgil), Paolo Onelli (Ministero del Lavoro), Sergio Iavicoli (Inail), Fulvio D’Orsi (Asl Rm C), Antonia Ballottin (Spisal Ulss 20 Verona), Maurizio Marcelli (Fiom Cgil) e Sebastiano Calleri (Cgil nazionale), mentre le conclusioni sono affidate al segretario confederale Cgil Fabrizio Solari. La seconda parte (dalle 14 alle 17.30) è un dibattito più generale sui rischi psicosociali, con particolare attenzione a mobbing, violenza e molestie nei luoghi di lavoro: oltre a Calleri e Di Nunzio, partecipano Anna Guardavilla (giurista), Mario Giaccone (Università di Torino), Edoardo Monaco (Università La Sapienza di Roma), Sergio Negri (autore), Laura Seidita (Cgil Piemonte), Massimo Magni (Università Bocconi di Milano) e Angela Goggiamani (Inail).
“La ricerca ha davvero molti meriti” commenta Sebastiano Calleri, responsabile Sicurezza della Cgil nazionale, tra cui quello di mostrare come “il processo di rilevazione del rischio stress in Italia abbia registrato evidentissimi problemi”. Problemi che vanno “dalla mancata o insufficiente rilevazione allo scarso o mancato coinvolgimento dei lavoratori e degli Rls, dalle procedure non corrette o incomplete all’inesistenza di un monitoraggio diffuso, sistematico e partecipato”. Tutte criticità, continua Calleri, che “si accentuano nei contesti della piccola e media impresa, e in quelli dove è presente il lavoro informale o irregolare”. Da ciò deriva, conclude l’esponente Cgil, che “la realtà dell’obbligo di rilevazione dello stress lavoro-correlato rischi, come spesso nel nostro paese, di essere una buona occasione totalmente mancata, con rilevanti conseguenze sui lavoratori e le lavoratrici”.