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Pubblichiamo un estratto del saggio Gli invisibili. Storie di ordinario sfruttamento, pubblicato negli Annali della Fondazione Di Vittorio, “Lavoro, salute e sicurezza. Uno sguardo lungo un secolo". Il volume sarà presentato il 1 febbraio a Roma. Quella proposta dagli Annali è un’indagine che attraversa l’intero Novecento arrivando fino ai nostri giorni, e arricchisce la riflessione sull’attuale condizione dei lavoratori e sui radicali mutamenti culturali e sociali in atto.
Le storie qui raccolte non rappresentano tutte le condizioni del lavoro migrante in Italia, ma una sua parte purtroppo consistente. Sono il simbolo di una crescente vulnerabilità, in parte prodotta dalle nuove condizioni del mercato del lavoro, in parte dall’assenza di leggi specifiche che colpiscano il grave sfruttamento lavorativo, in parte (in enorme parte) dall’attuale insieme di leggi e norme che regolano l’immigrazione nel nostro paese.
Si è aperto un varco all’insicurezza del lavoro e nel lavoro. Queste storie sono la cruda testimonianza che in Italia, nell’Unione Europea, al di sotto del «lavoro nero» si è spalancato un sotto-mondo inquietante, che va da gravi forme di ipersfruttamento a casi di vera e propria riduzione in schiavitù, per come questa è contemplata dall’articolo 600 del codice penale. Questa estrema vulnerabilità, questa violenza che si scatena sulla nuda vita di migliaia e migliaia di donne e uomini è la causa prima di una crescente (se non in alcuni casi totale) assenza di sicurezza materiale e psicologica che produce malattie, incidenti, morti silenziose. Lo testimonia la cronaca, incomincia ad essere contemplato nelle inchieste sociali. Ma c’è ancora molta strada da fare.
In tutte queste storie a un certo punto compare il sindacato. O meglio, alcuni sindacalisti o Camere del lavoro di provincia che si sono trovati in prima linea di fronte a quelle che non erano affatto storie «locali», ma avevano alle spalle fili più o meno invisibili che le riconducevano a dinamiche internazionali, a una condizione globale. Oggi è proprio lì, nel cuore dell’enorme provincia italiana, lontano dalle aree urbane, che spesso si realizzano le più profonde e «avanzate» trasformazioni; e l’agricoltura (con il consistente lavoro agricolo dei nuovi braccianti non-italiani) è la testa di ponte di questa trasformazione.
Il movimento operaio o è internazionale o non è, si diceva un tempo. Bene, queste storie e, su altro versante, le conoscenze acquisite e le iniziative di quei sindacalisti, costituiscono un esempio importantissimo di come si trova a operare il sindacato in un contesto globale e multiculturale, radicalmente mutato rispetto alle forme novecentesche con cui a lungo ha avuto a che fare.
Nel paese della mozzarella
Gioia del Colle, che sorge su una collina a metà strada tra Taranto e Bari, è il paese della mozzarella. I gioiesi ne vanno fieri e, a rimarcare il concetto, lo hanno scritto su un cartello visibile a tutti i visitatori. «Benvenuti nel paese della mozzarella», c’è scritto sopra a stampatello, ad annunciare che lì intorno sono spuntati come funghi decine di caseifici. Il boom economico delle Murge, il cuore ricco della Puglia, che ha trasformato le piccole imprese agricole in piccole aziende, creando un tessuto produttivo apparentemente florido, lo si vede dalla mozzarella.
Le aziende casearie più grandi, come Capurso, le esportano ogni giorno in aereo nel Nord Italia, dove i latticini costano anche 3 euro al pezzo. Capurso però è solo la punta dell’iceberg. Al di sotto delle grandi aziende si dipanano parecchie ombre. Molti hanno investito nella mozzarella come fosse un terno a lotto: l’arricchimento facile di alcuni ha prodotto la compressione dei diritti per «i nuovi cafoni».
E questa, proprio questa, è la storia del Caseificio America di Francesco Girardi Figli, e di Ismail che un giorno è entrato a lavorarci. Quando è arrivato a Gioia, agli inizi del 2001, Ismail non sapeva cosa fossero le mozzarelle. Non ne aveva mai vista una in vita sua. Da lui, in Marocco, i formaggi sono più duri e più aspri. Mai pastosi. Ma ciò non gli ha impedito di essere assunto insieme ad altri cinque connazionali, ventenni come lui, al Caseificio America. Non avrebbero dovuto mettere le mani sul prodotto, avrebbero dovuto fare tutti quei lavori di contorno «che gli italiani non fanno più».
Per battere sul tempo i grandi caseifici, Girardi faceva lavorare tutti di notte, dalle 10.00 di sera fino alle 6.00 del mattino. Ma mentre i dipendenti italiani seguivano le fasi lente della trasformazione del latte in massa, i marocchini dovevano correre da una parte all’altra. Prendere il siero. Versare l’acqua bollente. Spostare la cagliata. Trasportare le lastre di ghiaccio che servono a condensare il prodotto. Caricare i contenitori. Impilarli nei furgoni. A ripensarci oggi, Ismail prova una gran nausea, come se un enorme boccone di quella pasta bianca e gelatinosa gli si fosse fermato in gola e non volesse andare né su né giù. Gli manca il respiro. Ma non è il ricordo della fatica a farglielo mancare. È quello delle offese, delle umiliazioni.
In due anni, al Caseificio America, il padrone non lo ha mai chiamato per nome. Lo ha apostrofato «negro», «sporco negro», «ciuccio», «testa di cazzo», «trimmone» e con tutte le varianti offensive che il dialetto delle Murge contempla. «Mi ha sempre chiamato con la prima parolaccia che gli veniva in mente...». Che fossero parolacce Ismail ci ha messo un po’ a capirlo. Quando le sentiva andava dai gioiesi e – di nascosto – se le faceva tradurre dal dialetto. Se le faceva spiegare in italiano, una sorta di lingua «neutra», di scambio, che né Girardi né i figli volevano utilizzare.
Se Ismail ancora oggi dà tanta importanza alle parole, è perché la riduzione a una condizione subumana è stato il preludio allo sfruttamento. Per essere precisi, più che un luogo di sfruttamento il Caseificio America era un classico esempio di apartheid lavorativa, di regime segregazionista impiantato nella provincia pugliese. Sì, perché a Ismail e agli altri cinque marocchini era applicato un trattamento diverso rispetto agli altri dipendenti. Mentre gli italiani (in tutto cinque) potevano andarsene via all’alba, loro erano costretti a rimanere fino alle 9,00 per pulire il pavimento, le cisterne, gli strumenti di lavoro. Mentre gli altri italiani venivano pagati in nero, ma con assegni, e con una retribuzione accettabile, loro – i marocchini – venivano pagati 16 euro al giorno, cioè 400 euro al mese, in contanti.
Tanto non potevano protestare. Non c’erano ferie, né proteste, né diritti al Caseificio America. Ma la cosa insopportabile è che per il padrone ciò era normale. Rispondeva a un ordine naturale scolpito nella sua mente secondo il quale dopo il proprietario viene il proprio animale domestico o il proprio
cavallo e solo dopo, molto dopo, i marocchini da spremere come limoni. I negri... Ismail non poteva saperlo. Ma nello spicchio d’Italia in cui era capitato, se da una parte il boom economico aveva dissolto la civiltà contadina, dall’altra un modo di pensare ancestrale era rimasto intatto. Con le sue scorie, il suo putridume.
Con 400 euro al mese, Ismail riusciva comunque a campare. Vivevano in tre in uno stanzone di 35 metri quadri, pagando 100 euro al mese di affitto. Ogni giorno si buttava sul letto esausto alle 10,00 del mattino e si rialzava alle 8,00 di sera, giusto in tempo per mangiare un boccone e tornare al caseificio. Invisibile a sé e agli altri, fino a quando non ce l’ha fatta più e – insieme agli altri cinque – ha denunciato tutto. Tuttavia, quando sono andati al comando dei carabinieri, si sono sentiti dire dal maresciallo che tutti i datori si comportano così, che il lavoro a tempo indeterminato non c’è neanche per gli italiani e che loro che cosa pretendevano? Dovevano avere pazienza...
Il maresciallo quel giorno non ha accettato la loro denuncia, ma Ismail e gli altri non hanno desistito e, tramite un amico, sono entrati in contatto con Azmi Jarjawi, dello sportello immigrati della CGIL di Bari. Non ci erano arrivati prima perché diffidavano dei sindacati. In Marocco tutti dicono che i sindacati stanno dalla parte del governo, e che rivolgersi a loro non serve a niente. Quando hanno capito che in Italia è diverso, è stato Azmi a metterli in contatto con la Camera del lavoro del paese e con la FLAI. La FLAI ha fatto pressione su Girardi perché li assumesse con un contratto e li regolarizzasse attraverso la sanatoria del governo Berlusconi.
In un primo tempo Girardi ha fatto finta di accettare, ma poi si è rifiutato. Per due volte ha negato che si svolgessero le assemblee sindacali: la seconda volta ha addirittura chiamato i carabinieri, sostenendo che c’era stato un imprecisato «accoltellamento», cosa che si è rivelata falsa. Una settimana dopo, appena ha capito di essere stato messo all’angolo, i sei sono stati licenziati. Il resto della vicenda, in Terra di Bari, è noto. La FLAI ha impugnato la decisione davanti al giudice del lavoro e la causa si è conclusa in pochi mesi, con l’obbligo del reintegro e dell’equiparazione contrattuale dei lavoratori stranieri. È stato il primo caso, in Puglia, in cui un gruppo di immigrati ha denunciato (non individualmente, ma collettivamente) chi li sfruttava. Dopo la sentenza, i sei non sono più tornati al caseificio. Ma poco importa: la vittoria ha segnato il loro ingresso in paese da persone visibili. Ha permesso loro di cercarsi un lavoro migliore.
Ismail ora lavora in una ditta dell’appalto della Termosud. Fa il controllo di qualità sulle saldature e ha un contratto a tempo indeterminato. Quando non lavora, passa il suo tempo alla Camera del lavoro, è diventato responsabile per gli immigrati. Li incontra per strada, perché sui luoghi di lavoro sarebbe impossibile, e spiega loro i propri diritti.