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I lavoratori del settore privato che vogliano anticipare la pensione a 64 anni, in virtù della norma “eccezionale” per i nati nel 1952 (articolo 24, comma 15 bis della legge n. 214/11), potranno valorizzare tutta la contribuzione volontaria, figurativa e di riscatto, extralavorativa per il raggiungimento dei requisiti richiesti. Il chiarimento, potremmo dire definitivo, è contenuto nella circolare di Inps n. 180 del 7 dicembre scorso che, accogliendo gli ultimi indirizzi del ministero del Lavoro, interrompe anche il lungo braccio di ferro tra l’Istituto previdenziale e il Patronato della Cgil. “Possiamo dire che ce l’abbiamo fatta – commenta Morena Piccinini, presidente di Inca –. Ora questi lavoratori, perlopiù donne, potranno effettivamente esercitare il loro diritto, da troppo tempo negato a causa di interpretazioni restrittive e ingiuste che da anni abbiamo denunciato. Il merito è senz’altro da attribuire anche all’impegno di parlamentari, come Maria Luisa Gnecchi, che si sono fatti interpreti di una domanda di tutela crescente soprattutto tra quelle lavoratrici, particolarmente penalizzate dall’innalzamento brusco dei requisiti di pensionamento”.
La vicenda ha radici lontane. Nelle intenzioni del legislatore, il comma 15 bis doveva servire ai nati nel 1952, in via del tutto “eccezionale” (in deroga alla legge Monti-Fornero) di anticipare il pensionamento a 64 anni, in ragione della pesante penalizzazione, cui sarebbero andati incontro a causa del brusco innalzamento dell’età pensionabile; in virtù di questa norma, potevano andare in pensione al raggiungimento di requisiti anagrafici e contributivi più favorevoli da maturare entro il 31 dicembre 2012: vale a dire a 60 anni con “quota 96” e almeno 35 anni di contributi da dipendente, oppure con 20 anni di contribuzione.
Ma già dai primi messaggi, pareva chiaro l’intento restrittivo di Inps che, in modo del tutto arbitrario, avrebbe voluto limitare questa opportunità solo a coloro che risultassero occupati al 28 dicembre 2011 applicando, peraltro, sui requisiti richiesti, per concessione della deroga, l’adeguamento alla speranza di vita. Una interpretazione restrittiva del tutto ingiustificata – spiega Piccinini – in contrasto con le intenzioni del legislatore, che avrebbe escluso molte donne disoccupate”.
A correggere questo orientamento interviene una prima volta l’Ufficio legislativo del ministero che, accogliendo le ragioni sollevate da Inca, invia all’Inps un primo chiarimento (nota n. 13672 del 26 ottobre dello scorso anno), con il quale sottolinea come “…alla luce dell’evoluzione normativa intervenuta, sembrano sussistere prevalenti ragioni sistematiche per aderire a una tesi ampliativa” e specificando, quindi, che “…il diritto di accesso al pensionamento può essere esercitato anche da coloro che alla data di entrata in vigore della riforma prestavano attività di lavoro autonomo, svolgevano attività di lavoro presso una pubblica amministrazione o erano privi di occupazione, purché fossero comunque in possesso del requisito anagrafico e dell’anzianità contributiva richiesta dalla norma in esame maturata in qualità di lavoratori dipendenti del settore privato”.
Una prima vittoria di Inca a cui però sono seguiti altri messaggi di Inps per nulla rassicuranti poiché, mentre ammette i disoccupati al beneficio, aggiunge un altro paletto altrettanto arbitrario, secondo il quale il perfezionamento dei requisiti si sarebbe raggiunto unicamente con i periodi contributivi relativi ad effettivo lavoro escludendo dal computo la contribuzione volontaria, figurativa e di riscatto extralavorativi.
La reazione del Patronato della Cgil non si è fatta attendere: nel novembre 2016 scrive nuovamente al ministero del Lavoro per sollecitare una seconda correzione, poiché, sottolineava l‘Inca nella lettera inviata a Poletti, se venisse applicata la norma secondo l’orientamento di Inps, si verificherebbero effetti addirittura paradossali tra gli stessi aventi diritto. In sostanza, due lavoratrici, nate lo stesso anno, entrambe con 20 anni di anzianità contributiva, avrebbero potuto avere destini diversi se una delle due avesse avuto nella sua posizione assicurativa, per esempio, l’accredito figurativo di 5 mesi per maternità fuori dal rapporto di lavoro. In questo caso, la lavoratrice avrebbe dovuto attendere probabilmente 67 anni di età per poter andare in pensione.
“Una incongruenza del tutto ingiustificata, priva di fondamento – sottolinea Piccinini –, a cui finalmente è stato posto rimedio, consentendo a tante donne, che nel frattempo hanno già compiuto 65 anni, di poter fare la domanda di pensione. Resta il rammarico di aver perso più di un anno di tempo per arrivare a questa conclusione. Si poteva evitare se l’Istituto non si fosse incaponito a sostenere una posizione ingiusta e vessatoria nei confronti di tanti lavoratori, soprattutto donne”.