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E’ davvero paradossale, ma è così: per i lavoratori in part time ciclico verticale non resta che la via giudiziaria per vedersi riconoscere tutta l’anzianità contributiva inclusa quella relativa ai periodi di non lavoro. L’Inps insiste e resiste fino all’ultimo grado di giudizio per imporre una interpretazione restrittiva, che penalizza pesantemente chi non per scelta, ma per imposizione delle aziende, è costretto a pause di inattività, pur essendo titolari di un contratto di lavoro a tempo indeterminato.
L’ultima di una lunga serie di sentenze è stata emessa dal Tribunale di Venezia il 27 marzo 2018 (n. 200), su un ricorso promosso da Inca e Cgil Veneto, in favore di una lavoratrice, addetta alle mense scolastiche del Comune di Spinea, alla quale l’Inps ha voluto conteggiare l’anzianità contributiva, ai fini della pensione, considerando solo i 9 mesi di lavoro effettivo in un anno, escludendo i 3 di pausa forzata dovuta alla chiusura delle scuole. Un danno che si è protratto a partire dal 1999, anno in cui è stata assunta, fino ad oggi, con una riduzione complessiva del numero dei contributi di 5 anni. E se non ci fosse stata questa sentenza, gli effetti si sarebbero prolungati nel tempo ritardando il raggiungimento del diritto alla pensione.
La conseguenza positiva di questa sentenza è che la lavoratrice potrà dunque recuperare dal mese di aprile del 1999, per ogni anno, 3 mesi di contribuzione utili all’anzianità contributiva. “Il contenzioso non è nuovo – spiega Morena Piccinini, presidente Inca-; come Patronato abbiamo incassato una serie di successi giudiziari. L’ostinazione di Inps nello scegliere la via giudiziaria piuttosto che modificare una interpretazione sbagliata, oltreché dannosa per chi la subisce, è davvero inaccettabile quanto incomprensibile. Se pensa che noi desisteremo dal promuovere l’azione legale, sbaglia. Anzi, andremo avanti fino a quando non verrà affermato il diritto a tutti i lavoratori e le lavoratrici coinvolti”. Per Inca ci sono tutti i presupposti giuridici affinché l’Istituto corregga il proprio orientamento senza aspettare modifiche legislative come invece pretenderebbe.
Finora, infatti tutti i ricorsi legali hanno portato ad un identico risultato, e cioè la condanna dell’Istituto previdenziale pubblico a ricalcolare l’anzianità contributiva dei lavoratori ricorrenti con contratto part time ciclico verticale. La Cassazione, per esempio, è intervenuta per l’ennesima volta il 10 aprile scorso (con la sentenza n. 8772) ribadendo il principio di non discriminazione nei trattamenti tra i lavoratori con contratto full time e quelli in part time ciclico verticale, ma l’elenco dei verdetti è ben più nutrito: solo dalla Corte di legittimità in meno di due anni ne sono stati emessi ben 8 (Cass. 6 luglio 2017, n. 16677, Cass. 24 novembre 2015, n. 23948, Cass. 2 dicembre 2015 n. 24532, Cass. 22 dicembre 2016, Cass. 24 ottobre 2016, n. 21376, Cass. 19 ottobre 2016, n. 21207, Cass. 29 aprile 2016, n. 8565 del 2016, Cass. 27 febbraio 2017, n. 4968).
Se a queste sentenze si aggiungono quelle emesse dai tribunali territoriali l’elenco è davvero lungo, più che sufficiente per parlare di un orientamento giurisprudenziale univoco, ben consolidato. Merita ricordare, tra i tanti pronunciamenti, la sentenza del Tribunale di Padova del luglio 2016 (sentenza n. 473) che ha accolto il ricorso di un gruppo di dipendenti, ai quali il datore di lavoro aveva imposto di lavorare 9 mesi l’anno anziché 12 per esigenze aziendali, dove si precisava, richiamando la pronuncia della Corte di Giustizia europea (395 del 10 giugno 2010), che l’esclusione dei periodi di non lavoro dall’anzianità contributiva può essere giustificata solo se la prestazione lavorativa sia stata interrotta o sospesa per un impedimento, tale da giustificare l’accredito limitato della contribuzione”.
In tutti i dispositivi finora acquisiti, compreso quello del Tribunale di Venezia, si richiama peraltro quanto già stabilito nel 2010 dalla Corte Europea di giustizia, nella sentenza C-395/08 e C-396/08, laddove ha affermato che la disciplina italiana sul trattamento pensionistico prevista per i lavoratori a tempo parziale di tipo verticale ciclico è sfavorita rispetto a quelle concernenti gli altri lavoratori.
Secondo la Corte, il principio di non discriminazione scaturente dalla Direttiva n. 97/81, che l'Italia ha fatto propria con il D.L.vo n. 61/2000, fa sì che l'anzianità contributiva necessaria per l'individuazione della data relativa al diritto della pensione debba essere calcolata, per chi è a tempo parziale, come se avesse lavorato a tempo pieno. Da ciò discende che debbano essere prese in considerazione, in via integrale, anche periodi di non lavoro. Alla luce di queste considerazioni, conclude la sentenza, “osta una normativa nazionale la quale, per i lavoratori a tempo parziale di tipo verticale ciclico, esclude i periodi non lavorati dal calcolo dell’anzianità contributiva necessaria per acquisire il diritto alla pensione, salvo che una tale differenza di trattamento sia giustificata da ragioni obiettive”.
La questione investe tutti i dipendenti di aziende che svolgono attività “ciclica”, vale a dire intervallata da periodi di sosta dovuti a specifiche caratteristiche del ciclo produttivo (per esempio, le mense scolastiche, che chiudono nella pausa estiva e il settore del trasporto aereo, i cui addetti lavorano secondo un calendario ben preciso ). E non sono pochi. Secondo una stima della Cgil Veneto, il problema interessa oltre 150 mila lavoratori in Italia. Soltanto nella regione, nel settore privato, escludendo l’agricoltura, i lavoratori in part time verticale sono 13.340.