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Le aree agricole europee si stanno trasformando in “zone senza legge”, dove i migranti sono costretti ad affrontare “gravi violazioni dei diritti umani e dei lavoratori”. La denuncia arriva dalla Fondazione Svensson (un think tank norvegese pro-labour e vicino al mondo dei sindacati) che rilancia materiali e rapporti di origine comunitaria. Evidentemente non è una novità. Il settore dell’industria agroalimentare è uno dei più esposti alla competizione sui mercati globali, non solo europei, e sempre più spesso risponde alle difficoltà aumentando l’area di “prelievo” e sfruttamento della manodopera flessibile e a basso costo fornita da migranti.
Il nostro Paese è uno dei protagonisti di questa storia, col 55% del lavoro stagionale nei campi svolto da braccianti stranieri (dato elaborato dalla fondazione norvegese). E' la terra di Rosarno, Gioia Tauro e dell’agro pontino, dove pochi mesi fa un imprenditore agricolo ha minacciato col fucile i suoi braccianti indiani. Ma dove esplodono i problemi nascono anche le soluzioni. O provano a nascere. Quegli stessi braccianti si sono organizzati e sono scesi in piazza. Prima ancora, le iniziative contro il caporalato della Flai Cgil (il sindacato dei lavoratori dell’agroindustria) hanno portato all’approvazione di una legge, la 199/2016. E le esperienze di accoglienza del sindacato di strada hanno dato frutti concreti a Saluzzo e, ancora, proprio a Gioia Tauro.
Organizzarsi. Ci provano anche in Spagna, dove, in Andalusia e Almeria, quasi il 30% della forza lavoro nei campi viene dall’immigrazione, soprattutto nordafricana. Ma non è una battaglia ad armi pari. Ricorda sempre la Fondazione Svensson, citando un recente studio del Coordinamento europeo Via Campesina, che l’anno scorso, “dopo aver presentato una denuncia contro datori di lavoro e caporali per aggressioni sessuali e violazioni del lavoro, quasi 100 donne marocchine impiegate come raccoglitrici di fragole in Andalusia sono state espulse e rispedite nel loro paese d'origine”.
La fondazione norvegese evidenzia però un paradosso: il reclutamento di quelle donne è stato finanziato dalla stessa Unione europea (15mila lavoratrici nel 2018) entro un sistema che dovrebbe garantire la “migrazione temporanea esemplare” e la tutela di categorie sociali vulnerabili, come ad esempio madri con bambini che parlano solo l'arabo. Ma non è andata così. In questi casi, denuncia la fondazione, gli intermediari del lavoro sfruttano il sistema europeo per “aggirare la legislazione nazionale sul lavoro”, “quasi sempre a scapito dei lavoratori, in particolare dei migranti, con la conseguente violazione sistemica e strutturale di diritti fondamentali come il diritto a un reddito equo, il diritto a condizioni di lavoro adeguate, il diritto alla circolazione e i divieti di schiavitù e lavoro forzato”.
Per porre fine a questa tendenza, prosegue la Svensson, “saranno necessarie, in primo luogo, politiche sociali, del lavoro e dell'immigrazione basate sul rispetto incondizionato dei diritti dei lavoratori migranti e agricoli. E tutto questo deve avvenire nell'ambito di un radicale riorientamento dei sistemi di produzione e distribuzione agroalimentare, lontano dall'economia di sfruttamento delle risorse e degli esseri umani promossa dal modello agroindustriale”.
Un rapporto curato lo scorso giugno 2019 dall’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea (Fra) mostra come lo sfruttamento dei migranti inizi spesso con false promesse per poi concludersi nel peggiore dei modi, e dei mondi, possibili. Oltre la metà dei migranti – evidenzia il rapporto – ha trovato lavoro tramite passaparola, per poi ritrovarsi in “condizioni da campo di concentramento” dove “ci tengono come cani, come schiavi”. Il rapporto si basa su interviste faccia a faccia e focus condotti con 237 lavoratori adulti che sono stati vittime di grave sfruttamento tra il 2013 e il 2017. Si concentra su Belgio, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo e Regno Unito.
Tra le emergenze scoperte dai ricercatori dell’Agenzia, semplicemente ascoltando le storie di uomini e donne venuti in Europa per lavorare, e non per delinquere, spiccano gli orari di lavoro (fino a 92 ore, sette giorni alla settimana, senza ferie), le paghe da fame (5 euro al giorno), i debiti contratti coi trafficanti di esseri umani, le condizioni di alloggio (baraccopoli e container senza acqua o elettricità), le percosse e gli abusi verbali, l’assenza di indumenti protettivi per lavorare con sostanze chimiche pericolose, la minaccia di licenziamento e deportazione di fronte a richieste di salario.
Lo sfruttamento di questi lavoratori invisibili è il perno attorno al quale ruota la catena dell’approvvigionamento alimentare a basso costo. La Fra, nel suo rapporto, indica una serie di azioni che le istituzioni europee e gli Stati membri dovrebbero intraprendere. Ne citiamo alcune: collaborare con Europol, coi fornitori di servizi Internet e i social media per smascherare siti web di reclutamento utilizzati dai trafficanti; applicare le leggi sul lavoro per tutelare i diritti dei lavoratori migranti in materia di retribuzione, condizioni e orari; garantire che tutti i lavoratori, compresi i lavoratori stagionali e distaccati, abbiano un tenore di vita adeguato e contratti di locazione equi e che l'affitto non venga automaticamente detratto dal salario, quando l'alloggio è fornito dal datore di lavoro; consentire agli organi legislativi, ispettivi e di controllo di individuare e affrontare lo sfruttamento; ridurre la dipendenza dei lavoratori dai datori di lavoro, ad esempio rilasciando permessi di soggiorno o visti non legati a un solo datore di lavoro; informare i lavoratori dei loro diritti in una lingua a loro comprensibile; mettere a disposizione di tutte le vittime di reato, comprese le vittime di un grave sfruttamento del lavoro, servizi di assistenza specializzata.