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La biografia del professor Gianfranco Viesti è assai lunga: è un economista e insegna all’Università di Bari. Ha dedicato una parte consistente dei suoi studi e delle sue elaborazioni scientifiche al Mezzogiorno, alle politiche industriali, al regionalismo, alle autonomie locali. All’attività accademica ha sempre affiancato l’impegno nel dibattito pubblico, manifestando una reale passione civile. Da tempo non si sottrae a intervenire sul progetto di autonomia di Calderoli per sottolineare le contraddizioni e le conseguenze negative che comporterà non solo per il Sud ma per l’intero Paese. A cominciare dallo spezzettamento delle politiche pubbliche che porterebbe con sé un arretramento dell’esigibilità dei diritti, da quello alla salute a quello all’istruzione, di cittadine e cittadini.
Professore, l'autonomia differenziata ormai è legge...
Si, c'è un'intesa politica tra i partiti di governo per andare avanti concedendo, ognuno agli altri, un provvedimento bandiera. L’autonomia è una concessione di Forza Italia e Fratelli d'Italia alla Lega. Ma c’è dell’altro. Il Parlamento si è tagliato fuori dalla discussione di merito con le singole Regioni perché il potere di contrattare con esse è in capo al governo e alla presidenza del Consiglio. Ora si passa alla fase più importante, quella di capire quali poteri e quali risorse economiche l'attuale maggioranza sarebbe intenzionata a concedere alla Lombardia, al Veneto.
La norma prescrive che tutto deve essere fatto senza oneri aggiuntivi per lo Stato, che entro 24 mesi occorre definire i Lep e i rispettivi finanziamenti e fino ad allora la legge non si può attuare. Ma è davvero così?
In primo luogo c'è un gruppo di nove materie non legate ai Lep e il presidente Zaia ha già chiesto che vengano devolute al Veneto. In secondo luogo la vicenda dei Lep è propaganda, serve alle forze di maggioranza per difendersi, soprattutto al Centro-sud, dalle critiche dei cittadini e delle cittadine. È evidente che la definizione dei Lep è totalmente irrilevante per l'esito finale, perché è chiaro che non c'è nessuna concreta possibilità che i servizi cambino. È pura comunicazione e dovremmo non parlarne. Il punto centrale della legge è che non c'è alcun criterio, alcuna motivazione perché tutte queste competenze possano essere concesse alle Regioni. E poi che queste competenze vengono finanziate con compartecipazioni al gettito da parte delle regioni richiedenti.
Che cosa significa questo?
È la secessione dei ricchi: significa che possono essere concesse competenze tali da trasformare Lombardia e Veneto, e poi le altre Regioni che si accoderanno, in vere e proprie Regioni-Stato, insieme a un premierato con il quale un immenso potere finisce dalle mani del presidente del Consiglio. Significa che queste Regioni potranno legiferare come se fossero degli Stati e questo, col tempo, potrebbe produrre una lesione drammatica nella capacità dell'intero Paese di fare le proprie politiche pubbliche, di avere un ruolo a livello internazionale. In secondo luogo, sempre nel solco della secessione dei ricchi, è evidente che il tentativo di Lombardia e Veneto, grazie a questo sistema di compartecipazione, è quello di avere più risorse disponibili di quante ne abbiano oggi.
Proviamo a ragionare per macro aree. Cosa potrebbe succedere alla sanità.
Muore il servizio sanitario nazionale. Nel senso che l'organizzazione della sanità in Veneto e Lombardia e nelle altre Regioni che dovessero chiedere l’autonomia, diventa un sistema mutualistico totalmente indipendente dal resto del Paese. E se questo viene concesso alle prime due è molto probabile che tantissime altre Regioni si accorderanno. Che cosa questo implicherà si vedrà, dipenderà dalle scelte che faranno i presidenti delle Regioni. È molto probabile, ad esempio, che in Lombardia significhi un fortissimo aumento della quota del privato nel sistema sanitario regionale che avverrebbe a danno innanzitutto dai cittadini lombardi. Col tempo questa assoluta potestà nelle Regioni più ricche potrebbe determinare un aumento delle migrazioni sanitarie perché questi sistemi potrebbero diventare ancora più forti e potrebbero attirare, nel pubblico e nel privato, sia medici che infermieri dal resto del Paese. Si potrebbe mettere in moto un meccanismo di squilibrio del sistema, per altro già molto squilibrato, ancora più forte. E ciò che succederà alla sanità di Campania, Calabria, Puglia dipenderà da quello da quello che accadrà lì, e da quale potere avrà il Parlamento di fare leggi e per chi (visto che non ci sarà più il sistema nazionale) e da come verranno distribuite le risorse finanziarie. Si potrebbe assistere a una tendenza a spostare medici e pazienti verso Veneto e Lombardia.
Cosa potrebbe succedere alla scuola?
Quello che potrebbe succedere è una sua totale regionalizzazione. Nel senso che queste due Regioni hanno chiesto tutto, dalla potestà nel definire le finalità stesse della scuola, all'organizzazione, al reclutamento del personale. Sulla scuola gli impatti finanziari potrebbero essere più lievi rispetto a quelli sulla sanità, sicuramente – però – non ci sarà alcun riequilibrio delle altre Regioni in termini di strutture, mense, palestre, tempo pieno. Anzi, gli squilibri potrebbero aggravarsi e presidenti e assessori regionali alla scuola diventeranno potentissimi, visto che avranno un bacino elettorale colossale da curare, così come oggi curano quello legato alla sanità. È una questione di potere, di chi comanda in Italia.
E per quanto riguarda il trasporto locale?
Questo è un bel paradosso. Clamorosamente il Tpl non è tra le materie che si posso “chiedere”, perché è una materia già di competenza delle Regioni da 24 anni con la riforma del Titolo V. Una devoluzione mai attuata perché il suo finanziamento non è mai stato previsto in base ai fabbisogni effettivi: il trasporto pubblico locale è ancora finanziato a valori storici che penalizzano fortissimamente le regioni le città del Centro-sud. Non dimentichiamo mai che questo federalismo asimmetrico voluto dalla legge Calderoli avverrebbe senza che si sia data attuazione al federalismo simmetrico previsto dall'articolo 117 e 119 della Costituzione.
Cosa potrebbe accadere, invece, alle politiche industriali?
Potremmo assistere a un loro spezzettamento, nel senso che le Regioni diventeranno ancora più forti nel definire i meccanismi di incentivazione nei confronti delle imprese a seconda delle risorse disponibili. Si potrebbero creare degli squilibri ancora più forti rispetto a quelli che già esistono. È una materia fondamentale rispetto alla quale non è assolutamente chiaro che cosa può succedere, è necessario leggere le singole intese.
E la politica energetica?
Beh, qui siamo alla follia più totale. Veneto e Lombardia chiedono una totale regionalizzazione di tutto il comparto dell'energia, con tutte le norme su rinnovabili, carbone, gasdotti ecc. Per farla breve non esisterebbe più una politica nazionale valevole sull'intero territorio, ciascuna Regione potrebbe fare la sua. Follia totale, è evidente che non è la scala regionale quella adatta per fare le politiche energetiche.
Anche le politiche ambientali sono a rischio?
Anche in questo caso quello che si prospetta è molto grave, perché le Regioni a cui si dovesse devolvere questa materia riceverebbero competenze assai estese e potrebbero legiferare a loro piacere. Una ipotesi è che potrebbero usare le politiche ambientali come strumento per l'attrazione di imprese grazie a norme più lasche nel proprio territorio. La cosa veramente interessante però è che non sappiamo rispondere a queste domande, perché le Regioni che hanno chiesto l’autonomia non hanno mai detto perché vogliono queste competenze, cosa ci vogliono fare, hanno sempre detto “dammele e poi me la vedo io”. Non abbiamo alcun elemento che ci consenta di dire non solo perché le vogliono, ma anche qual è l'orientamento politico in base al quale vogliono utilizzare.
E il Paese in quanto tale cosa diventerà?
Un Paese Arlecchino sotto il profilo delle politiche pubbliche che verrebbero spezzettate. Diventerebbe sicuramente un Paese immensamente più litigioso perché tutto questo confuso e massiccio trasferimento di competenze creerebbe sicuramente un contenzioso infinito per decenni fra Stato e Regioni e tra le Regioni fra di loro. E si potrebbero generare squilibri ancora maggiori a seconda di come saranno governate le variabili finanziarie.
Infine, ai cittadini che cosa succederà?
Avranno ancora meno potere di oggi perché non sapranno di chi è la responsabilità delle scelte che vengono fatte: questo è quel che ci ha detto la Commissione europea. Il rischio è più forte per i cittadini e le cittadine del Centro-sud, ma anche per quelli del Nord che diventeranno sempre più sudditi dei loro presidenti.
E allora che cosa noi cittadine e cittadini dovremmo fare per evitare questo sfacelo?
Innanzitutto sarebbe un'ottima idea conoscere meglio i rischi che si corrono. E poi mobilitarsi sia a livello locale che nazionale per contrastarli. Questa è la via maestra per fermare l’autonomia differenziata: far percepire ai partiti di governo, soprattutto Fratelli d'Italia, che questo smembramento così dilettantesco del Paese potrebbe produrre per loro una perdita di consensi molto forte. Non ci dimentichiamo che il loro è un elettorato di destra con una tradizione centralista marcata e che, quindi, potrebbe non vedere affatto di buon occhio questo decentemente così massiccio e confuso. La via referendaria può essere una strada, certo c’è l’incognita del raggiungimento delle firme necessarie e poi del quorum, ma potrebbe essere una buona occasione per fare una campagna su queste materie, soprattutto al Centro-nord dove non se ne parla quasi per niente.