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Alfiero Grandi, vice presidente Coordinamento per la democrazia costituzionale (IMAGOECONOMICA)

Avevano ragione quanti insistevano che la legge 86/24 sull’autonomia regionale differenziata, voluta dalla Lega, ha profili di incostituzionalità.

Ricordiamo l’aggressione alla Presidente Todde perché aveva sollevato l’incostituzionalità di norme della legge Calderoli che prevede che le Regioni a statuto speciale (stabilite con legge costituzionale) possano chiedere nuovi poteri, come le altre mentre sono regolate dalla Costituzione. Un sotterfugio di Calderoli per avvicinare le regioni autonome regolate da norme costituzionali a quelle ordinarie, vero traguardo della Lega, ricorrente nei discorsi di Zaia.

La Corte costituzionale ha ritenuto non complessivamente incostituzionale la legge, ma ne ha “affondato” 7 punti decisivi come richiesto da Campania, Puglia, Sardegna, Toscana. Per valutazioni approfondite dobbiamo attendere che la sentenza della Corte Costituzionale sia nota integralmente, per ora accontentiamoci della sintesi che afferma chiaramente che la legge Calderoli è inapplicabile e deve tornare in Parlamento, se la maggioranza vorrà salvarla.

Da settimane Calderoli in combutta con Zaia e Fontana (tutti leghisti) hanno cercato di creare fatti compiuti per condizionare la Corte e il referendum, avviando trattative con le regioni, ma hanno dovuto rallentare di fronte al diniego di Tajani sulle materie del commercio e della politica estera, come aveva chiesto il Presidente della Calabria, e alla contrarietà di altri ministri, ad esempio sulla protezione civile. Le trattative tra Calderoli e i suoi sodali sono bloccate dalla sentenza.

La Corte non si è fatta intimidire e ha dichiarato incostituzionali anzitutto le norme che riguardano la possibilità di devolvere alle regioni intere materie (a proposito delle 23 materie chieste dal Veneto) ricordando che debbono riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative se giustificate dal principio di sussidiarietà, in altri termini da ragioni specifiche regionali, che debbono essere individuate regione per regione.

Il secondo punto impallinato dalla Corte riguarda la delega legislativa - senza criteri direttivi - al governo sui Lep, con la conseguenza che le decisioni sono prese dal governo limitando il ruolo costituzionale del Parlamento.

Il linguaggio felpato della Corte mette in luce che il governo si attribuisce poteri del Parlamento senza criteri e vincoli di delega. Libertà totale di decisione. È un anticipo del premierato. La Corte dichiara non costituzionale che un Dpcm determini l’aggiornamento dei Lep, qui c’è esproprio del Parlamento e un vero e proprio anticipo del premierato, modifica della Costituzione proposta da Giorgia Meloni ben lontana dall’approvazione. Con due conseguenze: una fuga in avanti prima di avere cambiato la Costituzione e l’indicazione di cosa avverrebbe se questo avvenisse.

In sostanza tutti i poteri riuniti nella persona del Presidente del Consiglio (una vera “capocrazia”). L’autonomia regionale differenziata è anche un cavallo ruffiano per il premierato.

Inoltre la Corte boccia la procedura prevista dalla legge di bilancio 197/22 per determinare i Lep con Dpcm, fino all’entrata in vigore dei decreti legislativi previsti dalla legge. C’è da chiedersi se Sabino Cassese capirà che è giunto per lui il momento di dimettersi dalla responsabilità di definire i Lep su nomina di Calderoli, che non ha più basi legislative, come hanno già fatto autorevoli componenti della commissione.

Particolarmente rilevante è la bocciatura della procedura finanziaria per la devoluzione dei poteri alle regioni. La Corte adotta una motivazione acuta, infatti afferma che paradossalmente potrebbero essere proprio le regioni inefficienti a prendere i soldi senza però garantire i servizi corrispondenti, scaricando le conseguenze su tutte le altre. Gran parte delle procedure finanziarie cerca di garantire maggiori risorse a chi prenderà nuovi poteri e nello stesso tempo garantisce alle altre regioni che non ci perderanno. La quadratura del cerchio al confronto è problema semplice.

La questione delle risorse è centrale nel disegno di Calderoli, Zaia e co., che hanno predisposto norme che forzano i poteri e preparano conseguenze incontrollabili per il bilancio pubblico, purtroppo con la connivenza di Giorgetti (Lega) che ha accettato/subito norme che rischiano di esautorare il Mef e la ragioneria dai loro compiti istituzionali sul bilancio, scrivendo una norma che prevede una risposta entro tempi certi del Mef altrimenti il ministro (Calderoli) potrebbe procedere, con una sorta di silenzio/assenso, a predisporre il decreto interministeriale per modificare le aliquote delle compartecipazioni delle regioni. Norma foriera di disastri.

Non a caso la Corte afferma che anche le regioni destinatarie di poteri e risorse debbano concorrere (è un dovere) agli obiettivi di finanza pubblica.

La Corte ha ritenuto che l’incostituzionalità non riguardi tutta la legge, che pure è colpita da censure severe che ne minano la possibilità di attuazione, perché sancisce che il Parlamento deve colmare i vuoti nel rispetto dei principi costituzionali.

È evidente che senza questo l’implementazione non è possibile, quindi Calderoli, Zaia, Fontana e sodali debbono fermarsi fino a quando il Parlamento non avrà riparato le falle dei siluri della Corte.

È del tutto legittimo effettuare il referendum abrogativo.

Le firme sono più del doppio necessario e sufficienti sia online che cartacee. La legge esiste, anche se azzoppata, ed è quindi del tutto possibile andare alla sua abrogazione totale in modo da correggere. Anche la parte non dichiarata incostituzionale, ma che è comunque politicamente e socialmente inaccettabile, quindi il referendum può e deve essere convocato tra il 15 aprile e il 15 giugno.

Lo schieramento rappresentato dal comitato promotore del referendum deve farsi sentire pretendendo la sua effettuazione, insieme agli altri 5, chiedendo ad elettrici ed elettori di votare si per abrogare tutta la legge Calderoli. Qualche entusiasta potrebbe sbagliarsi e pensare che ormai il problema dell’autonomia differenziata sia risolto dalla sentenza della Corte. Non è così. Il problema politico resta e bisogna iniziare rapidamente la campagna elettorale, senza perdere tempo, perché la legge resta in vita ed è l’occasione per chiudere la partita, perché i rapporti di forza in Parlamento sono quelli che conosciamo e la maggioranza più è in difficoltà più si chiude su posizioni settarie.

Va detto con chiarezza che convincere a votare almeno 25 milioni di abitanti è oggi un’impresa difficile ma possibile: per riuscirci occorre fare affidamento sulla società, sulle sue associazioni, sulle persone, sulla loro capacità di attrarre anche chi vota a destra, superando vincoli di appartenenza partitica. Bisogna consolidare l’orientamento contrario del Mezzogiorno e estendere al Nord la consapevolezza sui rischi che lo riguardano direttamente.

Fare conto solo sull’elettorato dell’opposizione sarebbe un errore; per di più è probabile che la destra punterà sull’astensione e quindi la società deve farsi carico di arrivare alla maggioranza necessaria dei votanti per chiudere la partita con la legge Calderoli e questa versione leghista dell’autonomia. Se ci sarà il quorum l’abrogazione è pressoché certa. Non perdiamo tempo.

Alfiero Grandi, vice presidente Coordinamento per la democrazia costituzionale