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Gli italiani non votano più. Noi non votiamo più. Alle elezioni, ai referendum, alle amministrative. Ci indigniamo sui social, ci lamentiamo al bar, critichiamo il governo, l’opposizione, l’Europa, il mondo intero. Ma quando si tratta di esercitare l’unico potere che realmente abbiamo, restiamo a casa. E intanto chi comanda ringrazia.
L’astensionismo non è una forma di protesta, è una resa. Il sistema non cambia perché chi potrebbe cambiarlo si è convinto che sia inutile provarci. Non è vero. Ogni legge, ogni decisione, ogni riforma passa per il consenso di chi ancora si presenta alle urne. Non andare a votare non punisce il potere, lo rafforza. Perché chi si astiene non annulla le regole del gioco, lascia solo che a scriverle siano gli altri.
Eppure, esiste un voto che più di ogni altro toglie alibi e scuse: il referendum. Uno strumento che non ha bisogno di intermediazioni, di partiti, di rappresentanti. Non si vota per qualcuno che poi deciderà per noi. Si decide direttamente. Sì o no. Senza filtri, senza compromessi. Per questo fa paura, per questo è stato svuotato nel tempo, per questo chi governa lo teme più di qualsiasi elezione.
Perché il referendum è l’espressione più diretta della sovranità popolare. In un sistema rappresentativo, quando votiamo per un partito o un candidato, deleghiamo. Diamo a qualcuno il potere di legiferare, sperando che mantenga le promesse fatte in campagna elettorale. E spesso ci ritroviamo con governi che fanno il contrario di ciò per cui li abbiamo votati.
Con il referendum, invece, la delega non esiste. Il cittadino non è più spettatore, ma legislatore. Scrive lui stesso le regole, decide cosa deve rimanere e cosa deve essere cancellato. È una forma di democrazia che non si affida a mediazioni, a tatticismi parlamentari, a giochi di potere. È una presa di posizione netta, un sì o un no che cambia il Paese.
E allora mettiamo alla prova lo stato della nostra democrazia. La prossima primavera (una domenica tra il 15 aprile al 15 giugno appena il governo avrà il buon cuore di farcelo sapere) si voterà per cinque referendum, promossi dalla Cgil e dal comitato sulla cittadinanza. Parlano di lavoro e di diritti. Temi che riguardano tutti, anche quelli che “tanto non cambia niente”.
Si chiede di ripristinare la reintegrazione per i lavoratori licenziati ingiustamente, di eliminare il tetto ai risarcimenti per chi viene mandato via senza motivo, di limitare gli abusi dei contratti precari, di garantire maggiore sicurezza sul lavoro. E poi c’è la cittadinanza, che oggi richiede dieci anni di residenza legale in Italia e che si vorrebbe riportare a cinque, come era fino al 1992.
Sono battaglie che toccano la vita quotidiana di milioni di persone, eppure il rischio è sempre lo stesso: che la gente se ne disinteressi. Ci siamo abituati a delegare, a pensare che non ci riguardi. Eppure, ogni volta che accettiamo la precarietà come inevitabile, che consideriamo normale l’assenza di tutele, che guardiamo con indifferenza chi lavora senza diritti o chi è italiano di fatto ma non di legge, contribuiamo a mantenere tutto com’è.
Votare a un referendum significa esercitare il potere nella sua forma più pura. È un atto di proprietà sulla propria vita e sulla società in cui si vive. Nessun leader, nessuna promessa elettorale, nessun calcolo politico. Solo la propria voce, che vale esattamente come quella di chiunque altro.
Se i referendum vengono ignorati, se non si raggiunge il quorum, se lasciamo che anche questo strumento venga svilito, allora non siamo vittime di un sistema che ci ignora. Siamo complici della nostra stessa irrilevanza. E se nemmeno questo ci interessa più, allora smettiamola di lamentarci. Perché un Paese che non partecipa non è solo un Paese governato male, è soprattutto un Paese senza futuro.