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Le donne hanno accesso alla Polizia di Stato nel 1981, varcando la soglia di un'amministrazione fino a quel momento monogenere soltanto nel 1983, data del primo concorso utile per commissari e commissarie. Si parla sovente dell’entrata delle donne in polizia avvenuta appena 40 anni fa con la 121/81 come di partenza e d’arrivo all’uguaglianza di genere: in realtà quest’evento non è né l’inizio né la fine del tortuoso percorso alla parità.
Le origini che hanno condotto all’assimilazione delle poliziotte nel Corpo ormai a ordinamento civile mettono le radici in un contesto socioculturale differente, si installano nel più ampio processo di democratizzazione nella nascente Repubblica italiana quando la Polizia di Stato era ancora “Corpo di Guardie di Pubblica Sicurezza” fondato da Badoglio nel 1944, come risposta di soccorso alla popolazione stremata dalla guerra e da contrapporre alla polizia di regime mussoliniana. È qui che hanno inizio i valori democratici della PS, in un corpo pensato per il soccorso, l’aiuto, la difesa, la tutela e non meramente per l’attacco armato contro il nemico: gli ideali della Repubblica si iniziarono a radicare in un corpo militare in cui gli appartenenti – ovvero gli uomini - potevano contrarre matrimonio soltanto dopo il 28° anno di età, dopo aver prestato almeno otto anni di servizio e previa autorizzazione del Ministero.
Non era permesso loro di avere un orientamento politico e di organizzarsi in sindacati ed erano a loro carico anche le spese della vita in caserma, improntata a un modello di maschilità egemonica in cui gli ufficiali si impegnavano a costruire negli agenti un’identità maschile che interiorizzasse come uniche possibilità il sacrificio, la rinuncia, la sopraffazione immotivata e il più totale assoggettamento fisico e mentale ai relativi superiori, i quali avevano la più totale autonomia decisionale nella vita anche personale dei militari: “capitava anche di trovarsi la fidanzata nella città in cui si lavorava” – dichiara in una testimonianza un maresciallo in pensione - “ma guai se il comando ne veniva a conoscenza: stai sicuro che di lì a poco ti sarebbe arrivato il trasferimento in altra sede!”.
Una vita che niente aveva a che vedere con il modello femminile degli anni ’50: la mamma affezionata a quella gonna un po’ lunga, la donna con i piedi per terra, sorridente miss del dopoguerra. È nella “favola degli anni ’50” che arriverà il Corpo di Polizia femminile, ovvero la prima porta totalmente disposta all’ingresso della donna. Ma com’era possibile conciliare l’organizzazione della vita militare così improntata alla maschilità con il portato simbolico della femminilità costruito negli anni del fascismo appena uscente? Era nata la Repubblica ma l’immaginario collettivo era ancora affetto dall’educazione tossica al genere imposta nel ventennio: da un lato, una virilità distruttrice, inseminatrice, senza emotività e fedele alla nazione più che alla propria morale e dall’altro lato, una femminilità remissiva, procreatrice, totalmente decentrata, oggettività e mai soggettività, con l’unica aspirazione di realizzazione nel focolare domestico.
È in questo contesto storico che Giovanni Carcaterra, l’allora Capo della Polizia di pubblica sicurezza, in una nota al ministero dell’Interno dichiarava: «sembra impossibile, dato il torbido ambiente in cui individui pericolosi svolgono le loro attività criminali, e la natura e la gravità dei reati che vi vengono regolarmente commessi, che personale femminile, anche di grande talento, possa svolgere con successo tutte le delicate e complesse mansioni di prevenzione e repressione che devono essere attuate nello specifico settore della prostituzione e in quello più generale del vizio».
Questo perché la legge di Lina Merlin del 1948, per contrastare il fenomeno della prostituzione con l’obiettivo di porre fine all’esercizio delle “case chiuse”, disponeva un provvedimento che annullava la polizia di buon costume, richiedendo che le donne fossero assunte come agenti di polizia e addestrate nel raggiungere le prostitute conducendole alla riqualificazione e programmi riabilitativi. Nonostante queste dichiarazioni, Carcaterra accettò di istituire una educazione formale idonea alle donne in uniforme ovvero acconsentì al fatto che degli individui di sesso femminile imbracciassero armi e seguissero la disciplina militare pur di non limitare l’autonomia delle funzioni di polizia: se non avesse approvato l’idea di avere delle donne in divisa, ci sarebbero state delle assistenti civili per gli uomini in servizio per contrastare la prostituzione.
Il corpo di Polizia femminile viene fondato nel 1959 con l’unica ragione di preservare la riservatezza del lavoro di polizia, il segreto essenziale alla cultura militare. I ruoli delle poliziotte erano due, uno direttivo e uno di concetto: Ispettrici e Assistenti. L’istituzione di un corpo femminile nasceva teoricamente dalla volontà di differenziare compiti, consegne, servizi e indirettamente, tutelarle dalla difficoltà fisica e psicologica che un poliziotto deve affrontare nel contrasto alla criminalità. Per assurdo però, nel 1961, «i registri mostrano che, oltre ai loro doveri di visite domiciliari e scolastiche per accertare la sicurezza dei minori; le ronde, i fermi e gli arresti effettuati dalla Polizia femminile riguardavano prevalentemente prostitute, e in parte anche omosessuali e transessuali, che venivano poi sottoposte a schedatura, sorveglianza e arresti domiciliari. Questo era un paradosso in cui le donne, considerate le più adatte al lavoro sociale, lato non criminale delle forze dell'ordine, avevano il compito di cercare e sradicare gli aspetti della società considerati più devianti, osceni e inappropriati per le donne». Nei fatti, come Tambor dichiara: «le poliziotte della Polizia Femminile hanno vinto il diritto all'uniforme, alla pistola di servizio e al potere giudiziario della PS ma la loro attività era diretta al controllo sociale e sessuale di altre donne».
A oggi, le agenti di Polizia accetterebbero una sorta di pseudomascolinità tentando di guadagnare accettazione e stima all’interno dell’attuale Amministrazione civile post 121/81 che così organizzata in ruoli e gradi, lascia poco spazio alla tipicità femminile limitandola sin dal linguaggio, al punto che le “ispettrici” assunte nel 1959 sono diventate “ispettori” con la migrazione nella nuova organizzazione civile. Le poliziotte, comprese di allieve presso le scuole di formazione, sono il 17% della forza totale (dati aggiornati al 15 febbraio 2021). Le percentuali più alte si concentrano nei ruoli dei funzionari e dirigenziali, numeri che trovano radici nell’antecedente Corpo Femminile: alle donne fu dato accesso all’Amministrazione attraverso il ruolo di ispettrici, che aveva tra i requisiti di partecipazione al concorso una laurea attinente e attraverso il ruolo di Assistenti, con requisito il diploma di scuola secondaria. Invece, al ruolo di ispettore si accede ancora oggi tramite concorso che prevede soltanto il possesso del diploma e per il ruolo di Agenti/Assistenti, l’accesso era consentito con la licenza media fino al concorso del 2018.
La resistenza culturale conserva limiti non decostruibili con l’attuazione della mera modifica normativa; l’accesso delle donne in polizia non ne ha modificato tempestivamente la considerazione e gli stereotipi ai quali sono inevitabilmente connesse, come si evince, ad esempio, dalle Tabelle per l'individuazione e la definizione delle divise della Polizia di Stato, aggiornate con decreto del capo della Polizia al 31 dicembre 2015, le quali prevedono ancora l’utilizzo della gonna ordinaria obbligatoria per i servizi di rappresentanza (cerimonia di giuramento compresa): l’impiego dei pantaloni – quantunque in dotazione per la divisa ordinaria femminile - è sottoposto all’autorizzazione del o della dirigente.
La rappresentazione della donna della polizia femminile in gonna e tacchi che imbraccia l’arma in dotazione non ha abbandonato l’immaginario formale di polizia, in cui questa volta sono esclusivamente le donne a essere limitate nella volontà di autodeterminarsi nella loro espressione di genere, assoggettate alla volontà arbitraria del/della loro superiore, quelle stesse donne che sono state considerate nella storia non idonee al lavoro di polizia perché non abbastanza temprate alla coercizione comportamentale ed espressiva prevista negli ambienti militari. Nei fatti, prendere parte – nel ruolo di produttore o di beneficiario – a culture organizzative più o meno attente alle differenze e più o meno attive nel porre rimedio alle disuguaglianze è rilevante tanto per il singolo quanto per la società che comprende organizzazioni più o meno eque.
Per questo, si può asserire che “il modo in cui si pensa e si fa genere” all’interno di un’organizzazione rientri in un più ampio processo di civilizzazione. Dal momento che socialmente è considerato equo nelle relazioni di genere ciò che è un prodotto storico delle istituzioni sociali e delle organizzazioni in generale, l’opportunità di costruire una pratica sociale di cittadinanza di genere si installa nelle modalità che una cultura organizzativa adopera per l’idea di giustizia nei rapporti fra i sessi dando vita a quell’insieme di norme giuridiche che garantiscono/impongono le pari opportunità tradotte in politiche del personale, da un verso, e in cultura organizzativa, dall’altro: è possibile individuare una molteplicità di concetti di cittadinanza legati alle pratiche “situate” in cui all’interno di un’organizzazione “si fa genere”.
Come “si fa genere” nella nostra Amministrazione? Il decreto 198 del 30 giugno 2003, ovvero il “Regolamento concernente i requisiti di idoneità fisica, psichica e attitudinale di cui devono essere in possesso i candidati ai concorsi per l'accesso ai ruoli del personale della Polizia di Stato e gli appartenenti ai predetti ruoli” prevede ancora i “disturbi sessuali e disturbi dell’identità di genere attuali o pregressi” come motivi di esclusione, nonostante nell’Icd-11 (International Classification of Diseases dell’OMS) la diagnosi relativa alle persone trans medicalizzate è di “incongruenza di genere” ed è stata spostata dal capitolo relativo ai disturbi mentali, in un capitolo creato ad hoc e denominato “condizioni relative alla salute sessuale”. Nel Dsm-V (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders) invece si usa la diagnosi di “disforia di genere” a segnalare che l’incongruenza può (ma non necessariamente deve) causare disagio.
Ad ogni modo, in nessuno dei due manuali si considera più essere trans una patologia. In più, è ormai noto all’Amministrazione di avere appartenenti trans* in servizio e, in generale, soggettività che rivendicano un’espressione di genere non binaria per il loro benessere. Pertanto, mantenere questi vincoli limitanti per la creazione dell’identità e della sua espressione per un lavoratore di polizia, risulta ormai anacronistico visto il contesto sociale in cui le poliziotte e i poliziotti prestano servizio e viste le soggettività del personale sempre più consapevoli e richiedenti di tutele che contemplino le pluralità identitarie e le loro molteplici sfumature.
La storia dei diritti delle poliziotte e dei poliziotti è stata scritta e si sta scrivendo lentamente ma senza sosta. Oggi non siamo più al capitolo dell’uguaglianza formale ma sostanziale: siamo donne e siamo uomini, con le nostre identità, i nostri molteplici orientamenti sessuali e la divisa non deve simbolicamente obbligare al silenzio delle nostre rappresentazioni. Bisogna non richiedere più alle donne e agli uomini di polizia di dimenticare chi sono per quello che fanno.
Michela Pascali è segretaria nazionale del Silp Cgil