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Il 21 marzo è il primo giorno di primavera che si lascia alle spalle il freddo inverno e apre le porte a una stagione diversa che ci porterà all’estate, tempo di vacanza al mare o in montagna (per chi se lo può permettere, perché non tutti possono andare in vacanza). Ma il 21 marzo è anche la giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. È dal 21 marzo del 1996 che ogni anno, in una città diversa, Libera, l’organizzazione antimafia presieduta da don Luigi Ciotti, organizza la lettura dei nomi delle vittime innocenti di mafia. Quell’anno le vittime censite erano 300. L’anno scorso siamo arrivati a 1.101 vittime innocenti. All’epoca non c’era un elenco preciso delle vittime perché nessuno, nemmeno il ministero dell’Interno, le aveva censite. È stato un lavoro lungo, certosino, compiuto sugli atti giudiziari e sulla stampa prima di arrivare ad un elenco completo ed attendibile.
Da cosa nasce l’idea di pronunciare i nomi delle vittime? Tanti anni fa, durante una funzione religiosa in ricordo della strage di Capaci, Carmela, una donna che portava su di sé un dolore immenso, incontrò Luigi Ciotti al quale, stringendogli forte il braccio, disse che suo figlio non si chiamava scorta, come di solito si diceva ricordando la terribile strage di Capaci quando si era soliti affermare che in quella strage era morto il giudice Falcone assieme agli uomini della sua scorta. Suo figlio aveva un nome e un cognome, era Antonino Montinaro ucciso a Capaci assieme a Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Da quel 21 marzo 1996 scandire i nomi e i cognomi come un interminabile rosario civile, ha il valore di farli vivere ancora, per non farli morire mai. Si fa memoria ma anche storia perché ognuno di loro è stato ucciso in determinate circostanze, e per precise ragioni che si possono cogliere meglio se si guarda al contesto storico in cui sono vissuti.
In quell’elenco ci sono tanti sindacalisti e contadini. I nomi sono pubblicati su Collettiva, e scorrendoli ad uno ad uno si possono ripercorrere le vicende delle lotte contadine che hanno costellato la storia del nostro paese e delle battaglie per il lavoro, la terra, la democrazia. Il movimento antimafia nasce nelle campagne siciliane del secondo dopoguerra quando i contadini organizzati dai sindacati e dai partiti occupano le terre dei feudi chiedendo la riforma agraria e si scontrano con i gabellotti, con gli agrari, con i mafiosi con la polizia. Sono lotte memorabili, epiche, che coinvolsero l’intero Mezzogiorno e che videro le donne in prima fila, combattive come non mai. Alcuni nomi sono impressi nella memoria collettiva perché hanno rappresentato momenti cruciali di quelle lotte.
Uno è Accursio Miraglia, ucciso a Sciacca il 4 gennaio 1947. Comunista e segretario della camera del lavoro. I funerali furono fatti alcuni giorni dopo la sua morte perché la salma fu esposta nella sede della camera del lavoro perché i lavoratori del paese e del circondario potessero salutarlo per l’ultima volta. Il grande corteo partì dalla camera del lavoro e lo accompagnò fino al cimitero. Miraglia era comunista e cristiano, ma il parroco locale non volle accoglierlo in chiesa. Quelli erano i tempi, due anni dopo ci sarebbe stata la scomunica dei comunisti voluta dal Papa. Quel parroco aveva anticipato i tempi. Poi, il 1° maggio arrivò la strage di Portella della ginestra, ma nel frattempo erano stati già uccisi altri due sindacalisti, oltre a Miraglia: Pietro Macchiarella e Nunzio Sansone.
Il 1948 è un altro anno di omicidi di sindacalisti. Nel giro di poche settimane furono uccisi a Petralia Sottana Epifanio Li Puma, a Corleone Placido Rizzotto, a Camporeale Calogero Cangelosi, tutti e tre sindacalisti e dirigenti socialisti. Lottavano contro i baroni, arretrati e boriosi, rinchiusi nei loro antichi e arcaici privilegi, protetti dai mafiosi. Uccidendoli pensavano di bloccare il movimento contadino. Erano anni davvero difficili, duri, caratterizzati da una violenza inaudita e combinata degli agrari, dei mafiosi e della polizia di Scelba.
Tra i tanti sindacalisti che erano alla testa delle lotte ci fu anche Pio La Torre che fu ucciso il 30 aprile del 1982. L’allora dirigente della Federterra e del Pci aveva avuto modo di conoscere nel periodo della sua militanza sindacale, negli anni aspri delle lotte contadine, i mafiosi che stavano prendendo il potere. Per comprendere il clima di quegli anni c’è da ricordare che il 10 marzo 1950 La Torre fu accusato falsamente di aggressione nei confronti di un poliziotto durante le occupazioni di terra. Prima del processo scontò nel carcere dell’Ucciardone la pena di un anno e mezzo di reclusione preventiva in condizioni durissime. Era in carcere quando gli arrivoò la notizia della morte della madre, ma gli venne negato il permesso di darle l’ultimo saluto. Durante i primi mesi della sua detenzione nacque il primo figlio, Filippo. Alla moglie, che ne aveva fatto richiesta, fu negata la possibilità di incontrare il marito per fargli conoscere il figlio: le venne permesso, inutile crudeltà, di sostare negli uffici del carcere mentre una guardia mostrava dal cortile il bambino al padre. Una disumana durezza.
Ricordare i nomi, la vita e la storia delle vittime di mafia significa anche ricordare a tutti che si sono battute per noi, per i diritti di tutti, per avere migliori condizioni di vita e di lavoro, per la democrazia. È grazie a loro se nei decenni successivi l’Italia è migliorata.