Quanto pesano le parole? Intorno a questo interrogativo si innescano i più accesi dibattiti, tra chi sostiene che il tentativo di modificare il linguaggio sia un capriccio che nulla ha a che fare con la parità di genere e chi, invece, sottolinea che la scelta delle parole con cui ci esprimiamo sia estremamente importante nella costruzione della realtà. Che ruolo ha allora il linguaggio? È davvero un aspetto marginale e di poco conto, oppure gioca una parte essenziale nell’edificazione della società che vorremmo? Ne abbiamo parlato con Vera Gheno, sociolinguista, attivista e divulgatrice.


Siamo abituatə a credere che ciò che pensiamo dia forma al linguaggio, per la necessità di comunicarlo. Ma può accadere anche il contrario? Può il linguaggio plasmare il nostro modo di vedere le cose?

Assolutamente sì. Una delle dimostrazioni più immediate è quello che succede quando ancora non abbiamo le parole. Raramente abbiamo ricordi veri dei nostri primi tre anni di vita; sono spesso ricordi ricostruiti, indotti a partire da foto o da racconti di famiglia. Questa “amnesia infantile” – come viene definita – pare sia proprio dovuta alla mancanza di parole. Questo vuol dire che, quando abbiamo bisogno di organizzare forme di pensiero complesse, interviene proprio la capacità linguistica. Le parole che usiamo non sono indifferenti perché contribuiscono a creare nel nostro cervello determinate narrazioni. E proprio da queste narrazioni nascono i giudizi e si superano i pregiudizi. Se così non fosse, non esisterebbero i fenomeni di manipolazione linguistica messi in atto dalle varie compagini politiche per influenzare l’opinione pubblica.

Quindi, l’uso del linguaggio non è una questione di “politicamente corretto”. Non è solo forma, perché la forma è sostanza...

Noi abbiamo un problema nel mondo di oggi: pensare che o c’è forma o c’è sostanza, o ci occupiamo di realtà o di linguaggio. È una conseguenza della nostra abitudine a vedere le cose in maniera polarizzata. Veniamo sollecitatə ogni giorno a prendere posizione in maniera netta. Bene o male? Giusto o sbagliato? Bianco o nero? Cattivo o buono? Riusciamo a ragionare solo per estremi, ma faccio notare che la “forma” linguistica serve per parlare di qualsiasi “sostanza”. Chi si trincera dietro al benaltrismo dimentica che anche per parlare di quel “ben altro” problema sta usando le parole. Quindi, la competenza linguistica è trasversale: serve a parlare di genocidio palestinese come di questioni di genere, di welfare, di ecoansia e così via. Non si può fare a meno delle parole, quindi tanto vale usarle al meglio.

C’è una relazione tra linguaggio e potere?

Di solito chi detiene il potere sociopolitico, culturale ed economico ha anche modo di decidere come si deve parlare, da una parte tramite la definizione della norma grammaticale, che contribuisce a rafforzare gli squilibri di potere, dall’altra vietando determinate parole. È esattamente quello che sta facendo Trump: escludere alcune parole con la speranza che ciò che quelle parole raccontano possa scomparire. E purtroppo è vero e drammatico: c’è il rischio che ci si dimentichi di determinate istanze, se non possiamo nominarle. Trovo paradossale che quella compagine politica, che ha sempre derubricato il linguaggio a questione marginale, ora lo stia improvvisamente mettendo al centro preoccupandosi di cancellarlo. Evidentemente le parole contano.

E sul lavoro? Che influenza ha il linguaggio nel rapporto tra i generi?

Sul lavoro ci sono squilibri di genere di cui neanche ci rendiamo conto. Un comportamento aziendale molto comune, che rende più difficile il riconoscimento della professionalità, è che quando in un ufficio c’è un gruppo di donne, queste vengono chiamate “ragazze”, indipendentemente dalla loro età. Il contrario avviene molto raramente, a meno che non si tratti di giovanissimi. Per non parlare del fatto che le donne vengano chiamate “signora” o addirittura “signorina” invece che con il loro titolo professionale.

Quindi, secondo te, il linguaggio può influire sulla costruzione di un ambiente di lavoro sereno e sul superamento delle barriere di genere?

Certo che sì. Il problema è che noi esseri umani da una parte siamo resistenti al cambiamento e dall’altra siamo miopi quando una questione non ci riguarda direttamente. Faccio un esempio: se siamo deambulanti senza alcuna fatica, non riusciremo a cogliere la difficoltà creata da un gradino di dieci centimetri per chi si muove in sedia a rotelle. La volta in cui ci troviamo noi in quella condizione, scopriamo che il mondo in cui noi normalmente ci muoviamo è pieno di barriere, a volte insormontabili anche se apparentemente molto piccole. Ecco, facciamo conto che la lingua che noi usiamo nel nostro quotidiano sia piena di gradini di dieci centimetri.

C’è ancora un’enorme resistenza al cambiamento. Si sentono fare commenti come “sindaca suona male” o “la schwa complica la comunicazione”. Tu come rispondi a queste critiche?

Questa storia della cacofonia ha stufato. Abbiamo nel nostro vocabolario parole come “isterosalpingectomia” o come “transustanziazione”. Termini come “ministra” o “sindaca” non sono cacofonici; semplicemente riconosci che ti possono suonare insoliti perché, finora, non li hai dovuti usare massicciamente, perché non c’erano sindache, ministre o assessore.

Pensi sia necessario uno sforzo collettivo per cambiare il proprio modo di pensare e di comunicare?

I cambiamenti linguistici nascono dalla necessità percepita da una parte della comunità. L’unica cosa che si può fare, quando si crede in determinati ideali, è portarli avanti. Viviamo in una società che pompa l’individualismo e ci fa dimenticare che siamo persone al centro di una collettività. Siamo dentro una rete e quindi i nostri comportamenti linguistici influiscono sulle persone intorno a noi. Non solo gli influencer con un milione di follower possono influenzare gli altri. Ognunə di noi, nel proprio piccolo, influisce sulle persone che ha attorno. In un passaggio della Grammatica della fantasia, Gianni Rodari dice che ogni parola è come un sasso, più o meno grosso, che cade in uno stagno. Anche il sassolino più piccolo provoca dei cerchi concentrici sull’acqua, smuove la melma, agita le alghe. È questa la posizione ideologica con cui noi dobbiamo usare le parole: pensare che le nostre parole forse sono sassi molto piccoli ma comunque smuovono le acque.