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Di tutte le sculture, quelle più difficili da realizzare rappresentano il desiderio femminile. Ogni donna sa quanto sia faticoso porsi come soggetto desiderante in una società che la riduce a oggetto del desiderio altrui. Ognuna sa quanto costi incidere una materia grezza e assemblare parti diverse negli spazi angusti in cui la costringono stereotipi e discriminazioni. Lo sa bene Giulia (nome di fantasia) che i suoi desideri li ha inseguiti, caparbia, lungo tutti i suoi 33 anni.
Nata e cresciuta a Roma, brama di andare alla scoperta del mondo, e lo fa. Dopo la maturità si trasferisce in Inghilterra, dove lavora per un anno e mezzo nel settore della ristorazione. “Mi piaceva l’idea di vivere all’estero – racconta – incontrare etnie diverse e imparare un’altra lingua”. Tornata in Italia, una svolta: si iscrive a un corso per operatrice socio sanitaria (Oss), consegue l’attestato ed entra come tirocinante in una struttura privata, una comunità-alloggio di donne dagli ottanta anni in su, di cui Giulia si occupa a 360 gradi. Provvede ai loro pasti, le aiuta a fare esercizio fisico, inventa attività ricreative comuni. Non lesina professionalità e cura, perciò la cooperativa che gestisce la struttura le propone un contratto, ma “a tempo determinato, con rinnovo ogni quattro mesi, perché – spiega – la scadenza coincide sempre con periodi festivi”, concomitanza usata come pretesto per rimandare la stabilizzazione.
Una fotografia
Il contratto a termine è notoriamente un indicatore della scarsa qualità del lavoro, perché impatta su intensità e stabilità. Eppure, è la forma prevalente di assunzione in Italia, colpendo più del 40% delle donne. Il tempo indeterminato, invece, copre solo il 13,5% delle assunzioni femminili, percentuale inferiore persino alle assunzioni stagionali (17,6%). Va poi sottolineata la “doppia debolezza” del contratto a termine associato al part-time (spesso involontario): il 64,5% dei contratti a termine delle donne è a tempo parziale secondo Inapp.
Il rischio di povertà
Quel contratto a termine, per Giulia, è come uno scalpello mozzo. Realizzare i propri desideri, dare alla propria vita la forma che si è immaginata, diventa impossibile. La prima rinuncia è quella ad andare a vivere da sola: da un lato, l’incertezza del rinnovo non le dà le garanzie necessarie a siglare un contratto di locazione, neppure transitorio; dall’altro, lo stipendio sarebbe comunque insufficiente a coprire affitto e utenze. Infatti, alla precarietà lavorativa è direttamente collegata la questione salariale. Stando agli ultimi dati Istat, le persone che lavorano a termine guadagnano in media il 24,6% in meno di quelle a tempo indeterminato. Significa ben un quarto dello stipendio. La bassa intensità del lavoro diventa allora fattore rilevante rispetto al rischio di povertà rilevato da Istat nel 2024, la cui incidenza raddoppia per chi lavora a tempo determinato (16,2% - rispetto all’8,5% dei tempi indeterminati).
Un futuro scolpito nella precarietà?
La seconda rinuncia di Giulia è quella a lottare per migliori condizioni di lavoro: i turni faticosi e gli straordinari spesso non retribuiti “mi hanno indotta in uno stato di stanchezza cronica – racconta – e causato problemi con amiche, parenti e colleghe. Per lo stress accumulato ho perso svariati chili e mi sono chiusa al mondo esterno”. Essere sotto scacco in vista del rinnovo del contratto “incide enormemente” – ammette – sulla decisione di andare avanti nonostante tutto. Infine, la maternità: di fronte al rischio di rimanere senza lavoro, “diventare madre è un desiderio che finora ho dovuto mettere da parte”. E ha ragione: secondo l’ultimo rapporto Inps, con la maternità tendono a restare occupate le donne che hanno un contratto a tempo indeterminato, mentre quelle a termine escono quasi sempre dal mercato del lavoro.
Giovani donne: le più penalizzate
In Italia, nel 2023, hanno lavorato a termine circa 3 milioni di persone – un milione in più rispetto al 2004. L’aumento è avvenuto in tutte le categorie, anche se se ne osserva una forte incidenza rispetto alla giovane età. Secondo Istat il contratto a termine è la forma con cui è impiegata oltre la metà delle persone di 15-24 anni, e di recente la quota è cresciuta tra le persone nella fascia 15-34, che raggiunge il 33,4% del totale del personale dipendente.
La sovrarappresentazione di donne e under 35 nella sfera del lavoro a termine mette in luce come l’intersezione dei fattori di genere e generazione faccia impennare la precarietà lavorativa – come testimonia la storia di Giulia. Il fenomeno ha poi delle ripercussioni sul godimento dei sussidi di disoccupazione e soprattutto della pensione di vecchiaia. Com’è noto, infatti, le pensioni delle donne italiane sono in media inferiori di circa il 36% rispetto a quelle degli uomini.
L’occasione dei referendum
La liberalizzazione dei contratti a tempo determinato è un’ingiustizia sistemica. La norma, introdotta in Italia nel 2015 dal Jobs Act, rende più ricattabile chi lavora, più prepotente il capitale. Ecco perché la Cgil ne propone l’abrogazione attraverso i referendum sul lavoro per cui tutt3 potranno votare questa primavera. Affinché a Giulia, e a chiunque altra, siano restituite la forza e la stabilità necessarie a scolpire liberamente la forma del proprio desiderio.
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