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L’8 luglio 1978, in un’Italia ancora profondamente scossa dall’omicidio Moro, viene eletto al Quirinale Sandro Pertini. È il settimo presidente della Repubblica italiana, il primo socialista ad ottenere l’incarico. È il presidente con la pipa, che per primo esce dal protocollo e che gioca a scopone con Zoff contro il duo Causio - Bearzot sull’aereo presidenziale di ritorno dal Mondiale vinto in Spagna nel 1982 che lo ha visto esultare in tribuna.
Il presidente del terremoto dell’Irpinia, della tragedia di Vermicino e della strage di Bologna, l’amico che in silenzio saluta la bara di Enrico Berlinguer e che farà trasportare la salma sull’aereo presidenziale.
Ricordava Enzo Biagi: “Andai a trovarlo alla Camera, di cui era presidente. Bevemmo un caffè, e lui accennò a pagare. Ma gli uscieri glielo impedirono. Un finimondo. Lui si offese a morte, protestò. E alla fine riuscì a saldare il conto”. Non era ancora capo dello Stato, e nessuno scrisse dell’episodio sui giornali. Ma Pertini era soprattutto questo: un uomo onesto.
Un uomo che nel 1933, da prigioniero, rimprovera la mamma per aver presentato per lui una domanda di grazia. Un uomo che si rifiuta di stringere la mano al questore di Milano Marcello Guida, non solo per il suo passato di funzionario fascista e direttore del confino di Ventotene, ma anche il fatto che sul questore gravasse l’ombra della morte di Pinelli.
“Bisogna sia assicurato il lavoro ad ogni cittadino - diceva nel suo discorso di insediamento -. La disoccupazione è un male tremendo che porta anche alla disperazione. Questo, chi vi parla, può dire per personale esperienza acquisita quando in esilio ha dovuto fare l’operaio per vivere onestamente. La disoccupazione giovanile deve soprattutto preoccuparci, se non vogliamo che migliaia di giovani, privi di lavoro, diventino degli emarginati nella società, vadano alla deriva, e disperati, si facciano strumenti dei violenti o diventino succubi di corruttori senza scrupoli. Bisogna risolvere il problema della casa, perché ogni famiglia possa avere una dimora dignitosa, dove poter trovare un sereno riposo dopo una giornata di duro lavoro. Deve essere tutelata la salute di ogni cittadino, come prescrive la Costituzione. Anche la scuola conosce una crisi che deve essere superata. L'istruzione deve essere davvero universale, accessibile a tutti, ai ricchi di intelligenza e di volontà di studiare, ma poveri di mezzi. L'Italia ha bisogno di avanzare in tutti i campi del sapere, per reggere il confronto con le esigenze della nuova civiltà che si profila. Gli articoli della Carta costituzionale che si riferiscono all’insegnamento e alla promozione della cultura, della ricerca scientifica e tecnica, non possono essere disattesi”.
“Non posso - dirà - non ricordare i patrioti coi quali ho condiviso le galere del tribunale speciale, i rischi della lotta antifascista e della Resistenza. Non posso non ricordare che la mia coscienza di uomo libero si è formata alla scuola del movimento operaio di Savona e che si è rinvigorita guardando sempre ai luminosi esempi di Giacomo Matteotti, di Giovanni Amendola e Piero Gobetti, di Carlo Rosselli, di don Minzoni e di Antonio Gramsci, mio indimenticabile compagno di carcere. Ricordo questo con orgoglio, non per ridestare antichi risentimenti, perché sui risentimenti nulla di positivo si costruisce, né in morale, né in politica”.
“Noi abbiamo sempre considerato - affermava - la libertà un bene prezioso, inalienabile. Tutta la nostra giovinezza abbiamo gettato nella lotta, senza badare a rinunce per riconquistare la libertà perduta. Ma se a me, socialista da sempre, offrissero la più radicale delle riforme sociali a prezzo della libertà, io la rifiuterei, perché la libertà non può mai essere barattata. Tuttavia essa diviene una fragile conquista e sarà pienamente goduta solo da una minoranza, se non riceverà il suo contenuto naturale che è la giustizia sociale. Ripeto quello che ho già detto in altre sedi: libertà e giustizia sociale costituiscono un binomio inscindibile, l’un termine presuppone l’altro: non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà, come non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale”.
Il neo eletto Presidente conclude il suo discorso d’insediamento con il proposito di cessare di essere uomo di partito per diventare “il presidente della Repubblica di tutti gli italiani, fratello a tutti nell’amore di patria e nell'aspirazione costante alla libertà e alla giustizia”.
Il presidente di tutti, ma soprattutto dei giovani ai quali diceva nel novembre 1978: “Io credo in voi giovani. Se non credessi in voi dovrei disperare dell’avvenire della Patria, perché non siamo più noi che rappresentiamo l’avvenire della Patria, siete voi giovani che con la vostra libertà, con il vostro entusiasmo lo rappresentate. Non badate ai miei capelli bianchi, ascoltate il mio animo che è giovane come il vostro. Voi non avete bisogno di prediche, voi avete bisogno di esempi, esempi di onestà, di coerenza e di altruismo”. Esempi, appunto, come lui.
“A sospingerci avanti - diceva - sono i nostri morti non ancora placati. E non saranno placati finché nella loro Patria, per il cui bene caddero, vi sarà un bimbo morente di fame, una madre senza tetto e senza pane, un vecchio abbandonato alla miseria, dopo anni di onesto lavoro, un uomo sfruttato da un altro uomo; finché l’incubo della guerra sovrasterà sull’umanità. Perché, dunque, placati alfine riposino i nostri morti, noi continuiamo con la fede e la fermezza di allora la lotta sino al raggiungimento della meta immancabile: l’Italia del popolo lavoratore”.
Ieri, oggi, sempre.