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L’8 luglio 1978, in un’Italia ancora profondamente scossa dall’omicidio Moro, viene eletto al Quirinale Sandro Pertini. Antifascista, socialista, partigiano eletto all’Assemblea costituente, quindi senatore nella Prima legislatura e deputato in quelle successive, sempre confermato dal 1953 al 1976, Pertini ricopre per due legislature consecutive, dal 1968 al 1976, la carica di presidente della Camera dei deputati.
Settimo presidente della Repubblica italiana eletto al sedicesimo scrutinio con 832 voti su 995, rimane in carica dal 1978 al 1985 (il 24 giugno 1985 Francesco Cossiga viene eletto al primo scrutinio con 752 voti su 977. Pertini, il cui mandato sarebbe scaduto il 9 luglio, si dimette il 29 giugno).
È il presidente con la pipa che per primo esce dal protocollo e che gioca a scopone con Zoff contro il duo Causio - Bearzot, sull’aereo presidenziale di ritorno dal Mondiale vinto in Spagna nel 1982, che lo ha visto esultare in tribuna.
Il presidente del terremoto dell’Irpinia, della tragedia di Vermicino e della strage di Bologna, l’amico che in silenzio saluta la bara di Enrico Berlinguer e che farà trasportare la salma sull’aereo presidenziale.
Un uomo che nel 1933, da prigioniero, rimprovera la mamma per aver presentato per lui una domanda di grazia.
Un uomo che si rifiuta di stringere la mano al questore di Milano MarcelloGuida, non solo per il suo passato di funzionario fascista e direttore del confino di Ventotene, ma anche per il fatto che sul questore gravasse l’ombra della morte di Pinelli.
Il 24 gennaio 1979 le Brigate Rosse uccidono a Genova Guido Rossa, iscritto al Pci e delegato sindacale della Fiom, membro del consiglio di fabbrica dell’Italsider dal 1970, reo - agli occhi dei terroristi - di aver denunciato un compagno di lavoro sorpreso a distribuire documenti delle Br all’interno della fabbrica.
Le istituzioni decidono per Guido Rossa i funerali di Stato che si svolgono in piazza De Ferrari il 27 gennaio. Il corteo è imponente e parte direttamente dall’Italsider di Cornigliano. In piazza De Ferrari sfilano in 250 mila insieme a Sandro Pertini, allora presidente della Repubblica.
A dispetto del cerimoniale, Pertini spinge per incontrare i camalli del porto. “Il prefetto - racconterà Antonio Ghirelli, ex portavoce del Quirinale - glielo sconsigliò, perché, disse, c’era simpatia per le Br. Ma Pertini insistette fino a che non lo accompagnarono al porto. Entrò in un grosso container, con le gigantografie di Lenin e Togliatti alle pareti.
E, nonostante i suoi ottantadue anni, scattò sulla pedana e in mezzo a un pesantissimo silenzio, urlò a centinaia di portuali: “Non sono qui come presidente, sono qui come Sandro Pertini, vecchio partigiano e cittadino di questa Repubblica democratica e antifascista. Io le Brigate Rosse le ho conosciute tanti anni fa, ma ho conosciuto quelle vere che combattevano i nazisti, non questi miserabili che sparano contro gli operai”.
Come capo dello Stato Pertini conferirà l’incarico a sei presidenti del Consiglio. Nominerà cinque senatori a vita: Leo Valiani nel 1980, Eduardo De Filippo nel 1981, Camilla Ravera nel 1982 (prima donna), Carlo Bo e Norberto Bobbio nel 1984.
Affermava da presidente della Camera dei deputati il 23 aprile 1970:
“Qui vi sono uomini che hanno lottato per la libertà dagli anni Venti al 25 aprile 1945. Nel solco tracciato con il sacrificio della loro vita da Giacomo Matteotti, da don Minzoni, da Giovanni Amendola, dai fratelli Rosselli, da Piero Gobetti e da Antonio Gramsci, sorge e si sviluppa la Resistenza. Il fuoco che divamperà nella fiammata del 25 aprile 1945 era stato per lunghi anni alimentato sotto la cenere nelle carceri, nelle isole di deportazione, in esilio. Alla nostra mente e con un fremito di commozione e di orgoglio si presentano i nomi di patrioti già membri di questo ramo del Parlamento uccisi sotto il fascismo: Giuseppe Di Vagno, Giacomo Matteotti, Pilati, Giovanni Amendola; morti in carcere Francesco Lo Sardo e Antonio Gramsci, mio indimenticabile compagno di prigionia; spentisi in esilio Filippo Turati, Claudio Treves, Eugenio Chiesa, Giuseppe Donati, Picelli caduto in terra di Spagna, Bruno Buozzi crudelmente ucciso alla Storta.
I loro nomi sono scritti sulle pietre miliari di questo lungo e tormentato cammino, pietre miliari che sorgeranno più numerose durante la Resistenza, recando mille e mille nomi di patrioti e di partigiani caduti nella guerra di Liberazione o stroncati dalle torture e da una morte orrenda nei campi di sterminio nazisti. (…) Non dimentichiamo, onorevoli colleghi, che su 5.619 processi svoltisi davanti al tribunale speciale 4.644 furono celebrati contro operai e contadini. E la classe operaia partecipa agli scioperi sotto il fascismo e poi durante l’occupazione nazista, scioperi politici, non per rivendicazioni salariali, ma per combattere la dittatura e lo straniero e centinaia di questi scioperanti saranno, poi, inviati nei campi di sterminio in Germania ove molti di essi troveranno una morte atroce.
Saranno i contadini del Piemonte, di Romagna e dell’Emilia a battersi e ad assistere le formazioni partigiane. Senza questa assistenza offerta generosamente dai contadini, la guerra di Liberazione sarebbe stata molto più dura. La più nobile espressione di questa lotta e di questa generosità della classe contadina è la famiglia Cervi. E saranno sempre i figli del popolo a dar vita alle gloriose formazioni partigiane. Onorevoli colleghi, senza questa tenace lotta della classe lavoratrice - lotta che inizia dagli anni ’20 e termina il 25 aprile 1945 - non sarebbe stata possibile la Resistenza, senza la Resistenza la nostra patria sarebbe stata maggiormente umiliata dai vincitori e non avremmo avuto la Carta costituzionale e la Repubblica.
Protagonista è la classe lavoratrice che con la sua generosa partecipazione dà un contenuto popolare alla guerra di Liberazione. Ed essa diviene, così, non per concessione altrui, ma per sua virtù soggetto della storia del nostro paese. Questo posto se l’è duramente conquistato e non intende esserne spodestata. Ma, onorevoli colleghi, noi non vogliamo abbandonarci ad un vano reducismo. No. Siamo qui per porre in risalto come il popolo italiano sappia battersi quando è consapevole di battersi per una causa sua e giusta; non inferiore a nessun altro popolo. Siamo qui per riaffermare la vitalità attuale e perenne degli ideali che animarono la nostra lotta.
Questi ideali sono la libertà e la giustizia sociale, che - a mio avviso - costituirono un binomio inscindibile, l’un termine presuppone l’altro; non può esservi vera libertà senza giustizia sociale e non si avrà mai vera giustizia sociale senza libertà. E sta precisamente al Parlamento adoperarsi senza tregua perché soddisfatta sia la sete di giustizia sociale della classe lavoratrice. La libertà solo così riposerà su una base solida, la sua base naturale, e diverrà una conquista duratura ed essa sarà sentita, in tutto il suo alto valore, e considerata un bene prezioso inalienabile dal popolo lavoratore italiano”.
Anche per questo grazie, presidente.