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Le ‘leggi razziali’ del 1938 sono senza ombra di dubbio uno dei capitoli più dolorosi della storia del ventennio fascista. Al Regio decreto legge del 5 settembre 1938 che fissava Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista e a quello del 7 settembre che fissava Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri fa seguito, il 6 ottobre una Dichiarazione sulla razza emessa dal Gran Consiglio del fascismo. Tale dichiarazione verrà successivamente adottata dallo Stato, sempre con un Regio decreto legge che porta la data del 17 novembre dello stesso anno.
“Il Gran Consiglio del Fascismo - conclude la dichiarazione - mentre nota che il complesso dei problemi razziali ha suscitato un interesse eccezionale nel popolo italiano, annuncia ai fascisti che le direttive del Partito in materia sono da considerarsi fondamentali e impegnative per tutti e che alle direttive del Gran Consiglio devono ispirarsi le leggi che saranno sollecitamente preparate dai singoli ministri”.
“Il Gran Consiglio del Fascismo in seguito alla conquista dell’Impero, dichiara l’attualità urgente dei problemi razziali e la necessità di una coscienza razziale. Ricorda che il Fascismo ha svolto da sedici anni e svolge un’attività positiva, diretta al miglioramento quantitativo e qualitativo della razza italiana, miglioramento che potrebbe essere gravemente compromesso, con conseguenze politiche incalcolabili, da incroci e imbastardimenti.Il problema ebraico non è che l’aspetto metropolitano di un problema di carattere generale. Il Gran Consiglio del Fascismo stabilisce: a) il divieto di matrimoni di italiani e italiane con elementi appartenenti alle razze camita, semita e altre razze non ariane; b) il divieto per i dipendenti dello Stato e da Enti pubblici - personale civile e militare - di contrarre matrimonio con donne straniere di qualsiasi razza; c) il matrimonio di italiani e italiane con stranieri, anche di razze ariane, dovrà avere il preventivo consenso del Ministero dell’Interno;d) dovranno essere rafforzate le misure contro chi attenta al prestigio della razza nei territori dell’Impero”.
Già sei mesi prima, il 19 aprile 1937, in Italia e nelle colonie era entrato in vigore il Regio decreto legislativo numero 880, la prima legge “di tutela della razza” promulgata dal regime fascista, riferita in particolar modo agli italiani che vivevano nelle allora colonie italiane in Africa (Somalia, Eritrea, Etiopia e Libia). Il decreto, convertito, con modificazione, dalla legge 30 dicembre 1937, n. 2590, recante ‘Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi’ vietava e perseguiva penalmente i matrimoni misti e il madamato, fino al 1937 consentito e legale.
Ma che cos’era esattamente il madamato? Il termine madamato designava, inizialmente in Eritrea e successivamente nelle altre colonie italiane, una relazione temporanea more uxorio tra un cittadino italiano (soldati prevalentemente, ma non solo) ed una donna nativa delle terre colonizzate, chiamata in questo caso madama (molto meno di una moglie e poco più che una schiava). Una forma di contratto sociale segnata dal dominio autoritario dell’uomo sulla donna, del colonizzatore sull’indigeno, dell’adulto sul bambino. Usuale era infatti la pratica di scegliere come ‘spose’ bambine vergini - strappate alle famiglie - anche per avere una minore possibilità di contrarre malattie veneree.
È noto il caso di Indro Montanelli. “Aveva dodici anni - raccontava il giornalista in una intervista rilasciata a Enzo Biagi per la Rai nel 1982 - ma non mi prendere per un Girolimoni, a dodici anni quelle lì erano già donne. L’avevo comprata a Saganeiti assieme a un cavallo e un fucile, tutto a 500 lire. Era un animalino docile, io le misi su un tucul con dei polli. E poi ogni quindici giorni mi raggiungeva dovunque fossi insieme alle mogli degli altri ascari. Arrivava anche questa mia moglie, con la cesta in testa, che mi portava la biancheria pulita” (l’episodio era già stato rievocato in precedenza nel 1969, durante il programma di Gianni Bisiach L’ora della verità: “Pare che avessi scelto bene – raccontava nell’occasione Montanelli – era una bellissima ragazza, Milena, di dodici anni. Scusate, ma in Africa è un’altra cosa. L’avevo regolarmente sposata, nel senso che l’avevo comprata dal padre”). Una pratica aberrante che viene vietata solo nel 1937 e non certamente per scopi nobili.
“Non si verifica madamismo - recitava un incartamento della Corte d’Appello di Addis Abeba del 14 marzo 1939 - nel caso di un nazionale che, assunta come domestica una donna indigena, la tenga in casa con un centinaio di lire mensili per salario, e se ne serva sessualmente, giacendo con lei tutte le volte che ne senta il bisogno, raccomandandole di non concedere altrui favori, ad evitare contagi lei, contaminazioni lui, ma dopo quaranta giorni circa, sente di sbandare da quelli che sono i doveri razziali di ogni buon italiano e si disfa della donna. Non vi fu comunanza di letto, non di mensa, sebbene prestazioni sessuali continuate ed esclusive, ma non per un periodo di tempo che autorizzi si dica formata una costanza e duraturità di rapporti tale da tramutare l’uso fisiologico del sesso in relazione coniugale”.
Oltre alla schiavitù sessuale, alle morti delle bambine a causa delle violenze sessuali, o per complicazioni durante le gravidanze e il parto, tutto questo produrrà un’altra atrocità non secondaria: il triste destino dei figli nati dagli abusi, “meticci” non riconosciuti dai padri la cui unica sorte era quella di essere abbandonati.