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Antonio Gramsci muore, dopo undici anni di sofferenze nelle prigioni fasciste, il 27 aprile 1937. Ha appena compiuto quarantasei anni. La cognata è al suo capezzale: poco dopo arriverà il fratello Carlo. Loro soltanto possono vedere la salma, “circondati da una folla di agenti e di funzionari del ministero degli Interni”.
L’8 novembre 1926 il fondatore del Partito comunista, in violazione dell’immunità parlamentare, veniva arrestato a Roma e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Il processo inizia a Roma il 28 maggio 1928. Gramsci è accusato di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato, incitamento all’odio di classe e condannato a vent’anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione.
“Carissima mamma - scriveva nel maggio di quell’anno - non ti vorrei ripetere ciò che ti ho spesso scritto per rassicurarti sulle mie condizioni fisiche e morali. Vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi. Che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione”. Sarà così.
“La figura di Antonio Gramsci - scriveva Giuseppe Di Vittorio nel primo anniversario della morte su La Voce degli italiani - è di quelle che ingrandiscono a misura che si allontanano nel tempo. Onorando la memoria del martire, al quale i figli più eletti di tutti i popoli rendono il più commosso omaggio, noi abbiamo la certezza di esprimere l’intimo sentimento, non già d’un partito, ma di tutto il popolo italiano, che intravide in Gramsci il grande condottiero capace di guidarlo sulla via della riscossa e della vittoria. (…) Il fascismo aveva compreso quale grande capo aveva in Antonio Gramsci il popolo italiano, e glielo rapì, assassinandolo gradualmente, freddamente, in oltre dieci anni di lento e sistematico supplizio”.
Il 22 maggio 1937 (18 giorni prima di essere ucciso insieme al fratello Nello), Carlo Rosselli celebrava il sacrificio di un uomo “intimo, riservato, razionale, severo, nemico dei sensitivi e delle cose facili, fedele alla classe operaia nella buona come nella cattiva sorte, agonizzante in una cella, con tutto un esercito di poliziotti che cercano di sottrarlo al ricordo e all’amore di un popolo”.
Nelle parole di Palmiro Togliatti Gramsci è stato “uno dei più originali pensatori dei nostri tempi, il più grande degli italiani dell’epoca nostra, per la traccia incancellabile che col pensiero e coll’azione egli ha lasciato”.
“È morto Gramsci”, annunciavano i fogli comunisti e antifascisti in esilio, mentre Mussolini sul suo giornale deriderà il defunto sottolineando come fosse morto da uomo libero “in una clinica di lusso”.
“Gramsci is dead, Gramsci è morto - scriveva qualche anno fa Guido Liguori - come recitava il titolo del libro di qualche anno fa di Richard Day, teorico statunitense del comunismo-anarchismo di estrema sinistra. Voleva dire che era morta la sua teoria dell’egemonia e più in generale il suo pensiero politico, in favore di una teoria immediatistica e di una azione inevitabilmente e dichiaratamente parziale degli attori sociali marginalizzati e divisi. E invece Gramsci è vivo. È il saggista italiano più diffuso nel mondo, in tutte le lingue e tutti i continenti. Gramsci è vivo e lotta, lotterebbe insieme a noi, se noi sapessimo anche minimamente essere degni del suo esempio di vita e del suo pensiero rivoluzionario”.