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La Confederazione generale del lavoro (Cgdl) nasce al primo Congresso di Milano del 29 settembre - 1° ottobre 1906 “per ottenere e disciplinare - da Statuto, art. 1 - la lotta della classe lavoratrice contro il regime capitalistico della produzione e del lavoro”.
Il programma confederale, confermato nei successivi Congressi nazionali di Modena, Padova e Mantova (tenuti rispettivamente nel 1908, 1911 e 1914), punta al miglioramento graduale delle condizioni di vita delle classi lavoratrici italiane da realizzarsi attraverso lo sviluppo della legislazione sociale e la diffusione della contrattazione collettiva.
“Giolitti - scrive Carlo Ghezzi - è il primo statista in Italia che sostiene apertamente che il conflitto sociale è un dato fisiologico, che il carabiniere deve starsene fuori, che se la vedano tra loro sindacati e imprenditori e che si facciano i contratti con le piattaforme, gli scioperi, con la contrattazione e con gli accordi che si dimostreranno possibili. La stagione giolittiana sconta però un limite enorme: funziona al Nord dove vi è la prima industria nascente, ma non funziona assolutamente nel Mezzogiorno dove il gendarme continua a sparare sui braccianti e sui minatori”.
Aggiunge Ghezzi: “Il giolittismo comincerà così a incrinarsi e procederà a tentoni fino alla avventura coloniale in Libia, mentre nel Paese seguiterà a vivere una democrazia fragile destinata a prefigurare nuove sciagure. Si arriverà così alla Prima guerra mondiale, si arriverà al Biennio rosso e si arriverà infine al prevalere del fascismo”.
Il 28 ottobre 1922, con la marcia su Roma, Benito Mussolini prende il potere. Dietro le manovre di normalizzazione politica operate dal regime (tra le quali anche il tentativo, poi fallito, di coinvolgere esponenti di spicco della Cgdl nel governo del Paese), l’azione repressiva prosegue culminando nell’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti nel giugno 1924.
La crisi vissuta dal regime nei mesi successivi verrà superata da Mussolini all’inizio del 1925 - pochi giorni dopo il VI Congresso della Cgdl, tenutosi a Milano nel dicembre 1924 -, quando il duce decide la svolta totalitaria attraverso una serie di provvedimenti liberticidi (le “leggi fascistissime”), che annulleranno qualsiasi forma di opposizione al fascismo.
Sul piano sindacale, con gli accordi di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925, Confindustria e sindacato fascista si riconoscono reciprocamente quali unici rappresentanti di capitale e lavoro abolendo le Commissioni interne (la sanzione ufficiale di tale svolta arriva con la legge 563 del 3 aprile 1926, che riconoscendo giuridicamente il solo sindacato fascista - l’unico a poter firmare i contratti collettivi nazionali di lavoro - istituisce una speciale magistratura per la risoluzione delle controversie di lavoro, cancellando il diritto di sciopero. La costruzione della ‘terza via’ del fascismo porterà alla Carta del lavoro nel 1927 e alla costituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni nel 1939, mentre all’estero - in clandestinità - il sindacato si ricostituisce).
Per quasi 17 anni il termine “sciopero” scompare dalle cronache italiane, ma ricompare - prepotentemente - nel marzo 1943 e poi ancora, e sempre di più, nei due anni successivi.
“L’insurrezione vittoriosa di tutto il popolo dell’Italia del Nord il 25 aprile 1945 - dirà Giuseppe Di Vittorio - realizzò la premessa essenziale della rinascita e del rinnovamento democratico e progressivo dell’Italia, come della sua piena indipendenza nazionale. È per noi motivo di grande soddisfazione ricordare che a questo movimento di riscossa nazionale, il contributo più forte e decisivo fu portato dai lavoratori italiani. Furono gli operai, i contadini, gli impiegati ed i tecnici che costituirono la massa ed il cervello delle gloriose formazioni partigiane e di tutti i focolai di resistenza attiva all’invasore tedesco”.
Conclude Di Vittorio: “Chi può dire se la clamorosa vittoria del 25 aprile sarebbe stata possibile, senza gli scioperi generali grandiosi che, dal marzo 1943, si susseguirono, a breve distanza, sino al 1945? Quegli scioperi, che contribuirono fortemente a paralizzare l’efficienza bellica del nemico e a sviluppare la resistenza armata, costituiscono un esempio unico e glorioso di lotta decisa dalla classe operaia sotto il terrore fascista, sotto l’occupazione nazista ed in piena guerra”.
Nel giugno 1944, poche ore prima della Liberazione della Capitale da parte degli Alleati, il lavoro di dialogo unitario avviato già negli anni Trenta tra i principali esponenti del sindacalismo italiano culmina nella firma del Patto di Roma (l’accordo ufficiale porta la data del 9 giugno, ma sarà antidatato per onorare la memoria di Bruno Buozzi).
La Cgil unitaria nasce dal compromesso tra le tre principali forze politiche italiane e il Patto di Roma è siglato da Giuseppe Di Vittorio per i comunisti, Achille Grandi per i democristiani, Emilio Canevari per i socialisti.
Buozzi, Di Vittorio, Grandi. Sono proprio questi uomini i protagonisti della ricostruzione del sindacato libero e democratico già a partire dai primi giorni dopo la caduta di Mussolini del 25 luglio 1943 quando, con la regia di Leopoldo Piccardi, nuovo ministro dell’Industria, del commercio e del lavoro del Governo Badoglio, i vecchi sindacati fascisti vengono commissariati.
Buozzi andrà a guidare la Confederazione dei lavoratori dell’industria (col comunista Roveda e il democristiano Quarello come vice), Grandi la Confederazione dei lavoratori dell’agricoltura (con vice Lizzadri), mentre Di Vittorio guiderà i braccianti (“Buozzi - recitano gli appunti di Oreste Lizzadri - ci mette al corrente delle intenzioni di Piccardi, ostacolato dagli altri ministri, di nominarlo commissario della Confederazione dei lavoratori dell’industria, con Achille Grandi a quella dei lavoratori dell’agricoltura. Gli ha chiesto anche i nomi dei vecchi sindacalisti per le altre Confederazioni. Buozzi ha posto come condizione pregiudiziale la presenza dei comunisti, in particolare quella di Roveda e Di Vittorio. Piccardi è perplesso: personalmente non sarebbe contrario, ma Badoglio, gli altri ministri e, in definitiva, Vittorio Emanuele, difficilmente ingoieranno un rospo di tale portata”).
Con il Patto di Roma del 1944 rinasce la Cgil unitaria che, seppure destinata a una vita breve a causa delle tensioni politiche nazionali e internazionali legate al nuovo scenario della “guerra fredda”, inciderà notevolmente sugli assetti costituzionali dell’Italia e sulla ricostruzione materiale, economica, sociale, civile e umana del Paese, uscito sconfitto dal conflitto mondiale.
In un contesto di nazione occupata militarmente e frammentata in molteplici centri di potere con diverse legittimazioni (Alleati, Repubblica di Salò, Governo Badoglio, Comitato di liberazione), la nascita della Cgil rappresenta un’assoluta novità. Si tratta di un’organizzazione di grandi dimensioni, unitaria e autonoma, che assume il ruolo di rappresentanza dell’intero mondo del lavoro. Nelle zone liberate dagli Alleati che avanzano lungo la penisola il sindacato ricostituito funge da elemento di ordine interno favorendo la stabilizzazione, nelle regioni centro-settentrionali rappresenta un punto di riferimento fondamentale per la Resistenza.
Un punto di riferimento che rimane basilare anche negli anni a seguire. Dalla ricostruzione al miracolo economico, dai reparti di confino allo Statuto dei lavoratori, dallo stragismo prima, terrorismo poi, al tramonto dei partiti di massa, da “tangentopoli” al ventennio berlusconiano, fino agli anni più recenti, la Cgil è stata uno dei principali protagonisti della storia del nostro Paese.
“Il 1° ottobre 1906 - affermava in occasione delle celebrazioni del primo centenario Guglielmo Epifani - nei locali della Camera del lavoro di Milano, al termine del Congresso delle organizzazioni di Resistenza, i 500 delegati presenti in rappresentanza di oltre 200 mila iscritti decidevano a maggioranza (…) di costituire in Italia la Confederazione generale del lavoro, affidandole la direzione generale assoluta del movimento proletario, industriale e contadino, al di sopra di qualsiasi distinzione politica”.
Proseguiva Epifani: “Quel soggetto confederale che nasce quel giorno è altro e più delle rappresentanze di categoria, professione, arte e mestiere e del mutualismo delle origini. Non è altro perché diverso e non è più perché sovraordinato. Ma perché l’identità confederale richiede inevitabilmente una ricerca permanente di valori e politiche di unità, partendo dalle differenze (…) Tutto, proprio tutto, della vita centenaria del sindacato italiano sta qui, in quell’atto, in quella scelta, in quell’inizio. In quell’idea - come ci ricorda Vittorio Foa - per la quale battendosi per i propri diritti si pensa insieme sempre ai diritti degli altri”.
L’ex segretario generale Cgil così concludeva: “Lavoreremo, care compagne e cari compagni, perché il futuro abbia il cuore e la forza di questa storia, che è storia del Paese, rinnovandola e riformandola, accettando le sfide, come sempre abbiamo fatto, quando la sfida ha avuto e ha una posta importante. Quello che ha alimentato una ragione di vita e una ragione di appartenenza, per tanti, attraverso le generazioni, ci servirà per il cammino che ci aspetta. (…) Ripartiamo con un nuovo inizio, orgogliosi della nostra storia e dei valori, che ne hanno segnato il percorso e ne accompagneranno il futuro, insieme con tanti altri al nostro fianco. In questo modo la storia centenaria della Cgil e di tutto il sindacato continuerà a vivere davvero e sarà stata una storia spesa bene, per chi la volle e per il Paese. Una storia che con emozione e orgoglio - non inferiore a quello che provarono i delegati di quel congresso cento anni fa - consegniamo a tutti coloro che verranno. Perché questa storia gli appartiene, perché vogliamo che il futuro comune riparta da qui”.
Perché ci sono radici che non si possono sradicare. Perché lavorare nella Cgil e per la Cgil non è, non può essere un mestiere come un altro. Buon compleanno Cgil, e mille di questi giorni a tutte e tutti noi compagne e compagni.
“Compagni - scriveva nel 2007 Mario Rigoni Stern - sì, Compagni, perché è un nome bello e antico che non dobbiamo lasciare in disuso; deriva dal latino ‘cum panis’, che accomuna coloro che mangiano lo stesso pane. Coloro che lo fanno condividono anche l’esistenza con tutto quello che comporta: gioia, lavoro, lotta e anche sofferenze. È molto più bello compagni che ‘camerata’, come si nominano coloro che frequentano lo stesso luogo per dormire, e anche di ‘commilitone’, che sono i compagni d’arme. Ecco, noi della Resistenza siamo Compagni perché abbiamo sì diviso il pane quando si aveva fame, ma anche, insieme, vissuto il pane della libertà, che è il più difficile da conquistare e mantenere”.
Aggiungeva Rigoni Stern: “Oggi che, come diceva Primo Levi, abbiamo una casa calda e il ventre sazio, ci sembra di aver risolto il problema dell’esistere e ci sediamo a sonnecchiare davanti alla televisione. All’erta Compagni! Non è il tempo di riprendere in mano un’arma ma di non disarmare il cervello sì, e l’arma della ragione è più difficile da usare che non la violenza. Meditiamo su quello che è stato e non lasciamoci lusingare da una civiltà che propone per tutti autoveicoli sempre più belli e ragazze sempre più svestite. Altri sono i problemi della nostra società: la pace, certo, ma anche un lavoro per tutti, la libertà di accedere allo studio, una vecchiaia serena; non solo egoisticamente per noi, ma anche per tutti”.
Pace, lavoro, giustizia sociale, libertà, democrazia. Sono le nostre ragioni da sempre. Ragioni per le quali continueremo a lottare, oggi come ieri. A schiena dritta e a testa alta. Con la convinzione, forte e inamovibile, di servire ‘una causa grande, una causa giusta’. ‘Una causa che val bene un impegno, val bene un rischio, val bene una vita’.