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Thierry, 51 anni, è stato licenziato e non trova lavoro. Ha appena finito un corso di formazione per riconvertirsi ma questo non porta un nuovo impiego: se un lavoratore viene formato come edile in altezza, ma non ha mai lavorato come tale, allora non verrà assunto, gli viene spiegato. Una beffa. Coincide con le cronache della crisi economica l’incipit del film di Stéphane Brizé, La legge del mercato (titolo originale La loi du marché). Non c’è il Jobs Act in Francia, ma la riforma del lavoro Hollande nel 2013 ha reso più facili le procedure di licenziamento e accorciato i tempi per rivolgersi in tribunale (da cinque a due anni). E’ quanto scorre in filigrana nella storia di Thierry, che ha una moglie e un figlio disabile, un mutuo da finire di pagare e frequenta corsi di formazione che - appunto - si avvitano su se stessi.
Thierry non accetta la trattativa a ribasso
L’uomo affronta venti mesi di disoccupazione al termine dei quali, stremato dal non lavoro (dal punto di vista economico, umano, psicologico), decide di accettare un’attività nuova e diversa: lavorerà in un ipermercato come sorvegliante alle telecamere per controllare i tentativi di furto. Qui conosce una legge del mercato perfino più spietata della disoccupazione: si trova a inchiodare prima i responsabili di piccoli furti, poi un anziano povero che ruba generi alimentari, infine perfino i suoi stessi colleghi che sottraggono buoni pasto o ricaricano una carta fedeltà coi punti dei clienti. Allora diventa evidente il carattere strumentale della sua attività: Thierry, suo malgrado, è un tagliatore di teste, un cecchino al servizio dei datori con il compito di “incastrare” i colleghi per poterli licenziare. Realizzata questa verità, al protagonista non resta che compiere un atto etico.
Thierry è una persona normale, non certo un eroe: nel mondo del lavoro, guerra tra poveri, egli rivendica la propria dignità e non accetta la logica della trattativa al ribasso, come dimostra la scena del “vero” negoziato per vendere la casa mobile: “Non siamo disperati, non vogliamo l’elemosina”, dice. Ed è vero: il suo personaggio non è esattamente indigente, non giace in povertà assoluta, è uno di noi che rischia di perdere tutto per una logica perversa di sistema. Per questo, in particolare, suonano patetici - se non tragici - i formatori verbosi, i colloqui via Skype, i discorsi di capi del personale che costellano il racconto.
C'è una differenza sottile tra la giustizia e ciò che è giusto
Il regista Stéphane Brizé ha nel sangue il cinema di Jean-Pierre e Luc Dardenne: come i fratelli valloni, autori l’anno scorso dello splendido Due giorni, una notte, egli segue il suo protagonista con macchina a mano e sviluppa il discorso in lunghi piani sequenza. E’ uno sguardo pudico, che non indugia nel dolore soprattutto nei confronti del figlio disabile: viene mostrato senza retorica, non sottolineato, è solo un dato di fatto. La storia, con il suo passo asciutto e rigoroso, evita molte trappole come il patetismo o la didascalia: Thierry è un uomo riservato che parla poco, non puntualizza né esplicita ragioni, e il disegno del carattere permette di non spiegare nulla interrogando piuttosto lo spettatore. Che osserva il realismo di una situazione e, alla fine, è chiamato a farsene carico.
La legge del mercato trova l’ennesima interpretazione straordinaria di Vincent Lindon, uno dei migliori attori oggi, premiato come tale al Festival di Cannes. Lindon è qui l’unico interprete di professione che si muove tra attori non professionisti, creando una dialettica complessa che deriva dal confronto tra recitazione e persone comuni. Nel cinema sul lavoro dei nostri anni, il film aggiunge un altro tassello al medesimo discorso: come i fratelli Dardenne, come il Cantet di Risorse umane, come il Ken Loach di In questo mondo libero..., ci dice che la legge del mercato può essere messa in discussione, muovendosi sul filo sottile della differenza tra la giustizia e ciò che è giusto. E la dignità, il rispetto di sé e dell’altro, non cede al ricatto del lavoro a tutti i costi.
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