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Se proviamo a guardare dentro il fenomeno della mobilità urbana, troviamo una incredibile serie di irrazionalità e inefficienze. Per esempio, osserva la Ellen MacArthur Foundation, nelle città europee le automobili in media restano parcheggiate per il 92% del tempo e quando vengono usate sono occupati solo 1,5 sedili sui 5 disponibili; il 20% del reddito lordo di una famiglia media viene assorbito dai costi derivanti dalla proprietà ed uso dell’auto; quella urbana è attualmente la componente più grande delle emissioni globali di Co2 dovute ai trasporti ed è la più grande fonte locale di inquinamento atmosferico urbano; la congestione e gli ingorghi costano il 2-5% del Pil ogni anno in termini di tempo perso, spreco di carburante e aumento del costo delle attività commerciali
A questo bisogna aggiungere che a ogni auto circolante in città è associata una quantità non indifferente di emissioni di Co2, quelle causate dalla loro costruzione, ovvero le cosiddette emissioni incorporate.
Se le cose stanno così, cosa ci spinge a continuare in questa folle frenesia dell’uso dell’auto in città? La ragione principale risiede nel fatto che la nostra vita quotidiana richiede un numero più o meno grande di spostamenti su distanze che impongono un mezzo motorizzato per percorrerle. I trasporti pubblici collettivi in questo senso aiutano molto, ma non risolvono interamente il problema.
Il fatto è che le città di oggi risentono di un modello di pianificazione urbana costruito sull’auto, e che prende il nome di zonizzazione: una parte della città destinata alla residenza, un’altra al lavoro (fabbriche e/o uffici), un’altra ai negozi, ai cinema, ai ristoranti, eccetera. E l’auto che serve per passare dall’una all’altra delle zone. Un modello preso a prestito dagli Usa, ed esteso anche alle città europee. In una città così fatta non c’è scampo: l’auto ci vuole, e ci vuole per tutti. Ci vuole anche se ci costa tempo, denaro, contribuisce significativamente alle emissioni di Co2 e soprattutto, mina la nostra salute con l’inquinamento dell’aria. E allora, per continuare ad aumentare il numero di auto e per ridurre in parte i danni, ecco la soluzione agli ultimi due problemi: l’auto elettrica, che non emette Co2 e non produce il particolato che distrugge i nostri polmoni.
Per questo oggi si fa un gran parlare della transizione verso i veicoli elettrici, dimenticando spesso che per fare andare un veicolo elettrico occorre energia che deve essere prodotta da qualche parte. E se questa energia deve essere prodotta con fonti rinnovabili, per azzerare le emissioni di Co2, la quantità è tale da porre dei seri problemi a causa, fra l’altro, della competizione fra l’uso del suolo per fare energia e per produrre cibo. Poi c’è da considerare le emissioni incorporate di questi veicoli, che sono maggiori di quelle di quelli convenzionali, a causa delle batterie.
Qual è la soluzione, allora? La più ovvia: ridurre il numero di auto circolanti, elettriche o no, senza però penalizzare i cittadini. Il modo migliore, più efficace, per ridurre il numero dei veicoli è renderli non necessari, anzi inutili. Per rendere l’auto inutile in città occorre fare in modo che tutti i luoghi in cui dobbiamo recarci di frequente siano a breve distanza da casa, tanto da essere più conveniente e veloce andarci a piedi (o al più in bicicletta) invece che in macchina, come dicono le regole dell’urbanistica sostenibile. Ciò significa riorganizzare la distribuzione spaziale dei servizi in modo che tutto ciò che serve con frequenza giornaliera si trovi a una distanza di non più di 5-10 minuti a piedi o in bici e a 10-15 minuti tutti quelli che servono due-tre volte la settimana. Più lontani quelli che si usano di rado: teatro, museo, cinema.
Questa è la politica che ha abbracciato la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, che ha lanciato la “Parigi del quarto d’ora”. Una città i cui servizi principali, scuola, lavoro, shopping, laboratori artigiani, attività motorie, ristoranti e bar, negozi di alimentari, ambulatorio medico, siano tutti a non più di un quarto d’ora da casa a piedi o in bicicletta.
Così facendo, l’auto non serve più, se non in rari casi, e in questi si usa il car sharing, naturalmente con auto elettriche. In questa prospettiva, la riduzione del numero di autoveicoli diventa significativa, lasciando le strade più libere, e quindi con la possibilità di inserire piste ciclabili e ampliare i marciapiedi che possono arricchirsi di alberi, aiuole, arredo urbano vario. La città cambia volto, più verde, più silenziosa, più godibile.
Bisogna fare un gran lavoro di riorganizzazione della distribuzione dei servizi, il che naturalmente ha un impatto sulla dimensione dell’unità che fornisce il servizio. Non sarà più il grande supermercato in cui andremo a comprare frutta e verdura, assieme alle pentole e alla Nutella, ma andremo dal fruttivendolo, dal droghiere, dal negoziante di casalinghi, tutti piccoli-medi negozianti sotto casa. Lo smart working, inoltre, permette un decentramento dei luoghi di lavoro, condivisi fra lavoratori di aziende diverse, in piccoli centri di quartiere ad hoc attrezzati.
Si tratta, evidentemente, di una rivoluzione che porta all’agonia e probabile morte dei centri commerciali, dei centri direzionali, di tutto il modello urbano basato sulla zonizzazione.
Con questo approccio però si creano centinaia, migliaia di piccole attività commerciali, artigianali, di servizi, con beneficio per l’occupazione e per una più equa distribuzione del reddito, oggi sproporzionatamente concentrato nelle mani dei grandi gruppi della grande distribuzione organizzata.
Certo, non è un’impresa facile, ma va portata avanti, valutata in tutte le sue sfaccettature e possibili implicazioni, governata con flessibilità e fantasia, perché prefigura una città non soltanto più godibile, sana e giusta, ma anche più in linea con l’obiettivo di ridurre al minimo le emissioni di Co2.
Federico Butera è Professore emerito di Fisica Tecnica Ambientale al Politecnico di Milano