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Questi ultimi lunghissimi mesi, condizionati dalla emergenza pandemica, hanno comportato uno stravolgimento emotivo, oltre che produttivo e sociale, e hanno contestualmente svolto la funzione di straordinario evidenziatore delle disparità e delle diseguaglianze sociali, presenti sia a livello globale che nel nostro paese. Frutto della grave crisi economica provereinte dalla situazione pandemica è il piano europeo noto come Next generation Eu: un imponente stanziamento di risorse per ridisegnare l’Europa.
Oggi siamo alla fase iniziale di impiego dei fondi stanziati dal Recovery fund. Sono 191 i miliardi destinati all’Italia cui si aggiungono 13 miliardi dal programma React Eu e ulteriori circa 30 miliardi. In totale saranno dunque a disposizione 235 miliardi. I finanziamenti sono il frutto di una straordinaria operazione obbligazionaria, la prima messa in campo dall’Ue, e dovrebbero consentire un ridisegno del sistema paese, a partire dalla infrastrutturazione materiale e immateriale che indica la digitalizzazione dei processi come elemento abilitante di ogni trasformazione, passando per un rafforzamento e una trasformazione radicale nell’ottica della rinnovazione e della maggiore efficienza di Pa e Sanità, puntando sulla transizione ecologica.
Il tutto sulla base di un modello di sviluppo che, a nostro avviso, per essere davvero rispondente ai bisogni delle persone, deve prevedere una partecipazione e un confronto che coinvolga i territori, i cittadini e le cittadine e le parti sociali nella fase di realizzazione concreta dei progetti finanziati.
Proprio a partire dalla lettura e dalle considerazioni di merito e di metodo espresse dalla Cgil rispetto alle scelte allocative delle risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza, abbiamo deciso di avviare una riflessione che ponga al centro della riprogettazione del paese anche le politiche di genere, intese nella loro dimensione più ampia.
Le declinazioni stesse del Pnrr infatti, la concretizzazione dei progetti sostenuti dalla notevole quantità di finanziamenti prevista, non può essere priva di genere. Ciascuna missione prevista nel Piano, dalla transizione digitale alla mobilità, dall’istruzione e formazione alla sanità, devono essere a nostro avviso declinate in modo non neutro ed è oggi più che mai trasversalmente ineludibile “inserire” la questione femminile in tutte le agende.
Ci pare questo un obbiettivo coerente e necessario anche al perseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, di certo imprescindibile per una modifica seria del modello di sviluppo e della società diseguale che ben conosciamo. I dati sull’occupazione femminile, le stime inoppugnabili sul prezzo pagato prevalentemente dalle donne in questi ultimi due difficili anni di pandemia (444 mila posti di lavoro persi nel 2020 di cui 312 mila riguardavano occupazione femminile), la certificazione (Wef) del divario di genere che vede l’Italia al 66° posto tra i 153 paesi monitorati, obbligano a ripensare l’approccio complessivo alla costruzione di modelli sociali, di ricerca, produttivi, di ridisegno dei luoghi, che coinvolga le donne a partire dalla fase di progettazione.
In questo quadro assume particolare rilevanza la transizione digitale, l’elemento centrale del piano, trasversale alle 6 missioni del Pnrr ma, più in generale, un imponente salto tecnologico già in atto che non trasforma solo i settori produttivi e di erogazione dei servizi, ma il lavoro stesso e gli assetti sociali. Un processo ancora in corso ma prepotentemente accelerato dalla crisi pandemica, che di fatto influenza complessivamente le condizioni delle persone, la loro vita, i luoghi e il modo di abitarli, la mobilità, le forme di comunicazione, i consumi. Un processo che impatta anche sulla agibilità dei diritti individuali e collettivi.
Insomma, una trasformazione che, come tutte le trasformazioni tecnologiche, va governata e indirizzata sulla base di un progetto politico che, a nostro avviso, deve declinarsi in un’ottica di inclusivitá e diffusione di benefici a favore dell’umanità tutta.
La diffusione delle tecnologie può e deve trasformare gli equilibri a favore della riduzione delle asimmetrie, delle differenze e delle diseguaglianze, tra luoghi, tra persone, tra generi. La diffusione degli strumenti digitali, dunque, i rischi insiti nella loro pervasività, le opportunità che offrono, necessitano anch’essi di un indirizzo politico che parta dal riconoscimento dei bisogni, dalla volontà di darvi una risposta positiva e dall'esigenza di impedirne i possibili effetti discriminatori.
Per far questo è necessaria una trasparenza dei meccanismi di implementazione tecnologica che noi racchiudiamo in una nostra rivendicazione, di fatto antecedente alla crisi pandemica: vogliamo contrattare l’algoritmo. Perché la tecnologia non è neutra, le decisioni assunte con l’ausilio di strumenti tecnologici quali, ad esempio, l'Intelligenza artificiale, non sono affatto apoditticamente corrette, e chi programma algoritmi, chi nutre le macchine con il loro unico necessario alimento, i dati, può produrre anche inconsapevolmente discriminazione.
Le due ricercatrici licenziate recentemente da Google studiavano appunto la discriminazione insita nei programmi di riconoscimento vocale della grande big tech, dopo avere svolto studi analoghi sulla discriminazione anche di genere insite nei programmi di riconoscimento facciale. Per descrivere alcuni episodi di possibile discriminazione, nel manuale collettivo sull’IA di recente pubblicazione, abbiamo titolato “L’algoritmo maleducato”: perché appunto le macchine apprendono ed è del tutto umana la attività sottesa alla formazione della macchina.
Si tratta di elementi tutt’altro che marginali in considerazione della massiva diffusione di strumenti di questa natura e della diffusa previsione di agevolatori tecnici alle decisioni negli ambiti più diversi. Sempre più ci si affiderà infatti in molteplici ambiti a soluzioni quantomeno ibride. Giacché proprio il mondo delle nuove tecnologie e del digitale, che è nato sulla retorica dell’egualitarismo, della libertà, perpetra modelli maschilisti. E questo accade perché la maggior parte dei programmatori e sviluppatori è maschio, ma anche perché molti imprenditori del settore sono maschi e la ricerca è spesso privata e dunque finalizzata a obbiettivi non necessariamente capaci di rispondere alle necessità diverse degli attori sociali. Per questo dobbiamo agire affinché vi sia un sostanziale cambio di prospettiva.
Le domande che dobbiamo porci sono semplici: la ricerca può essere priva di genere? La medicina può ignorare le diversità? I piani di ridisegno dei luoghi, le Smart city o gli Smart lands, davvero prevedono cittadini neutri o sono invece disegnati su maschi bianchi?La ricerca di certo non può più essere declinata solo o prevalentemente al maschile e la presenza femminile nel mondo delle tecnologie deve essere incentivata e implementata come leva per ridurre il divario di genere.
Contrattare l’algoritmo è anche evitare che i pregiudizi di genere siano insiti nel “materiale” formativo necessario al machine learning e che i bias di genere diventino l’origine discriminatoria dei processi decisori supportati dall’intelligenza artificiale. E grazie agli strumenti digitali, se governati, si possono riconfigurare i luoghi in un’ottica di inclusività che tenga conto anche delle differenze di genere, pensando a indicatori di smartness che tengano conto della reale risposta ai differenti bisogni delle persone.
Neppure il contrasto alla violenza può esimersi da un ragionamento sulle implementazioni tecnologiche, se i dati ci dicono che in Europa sette donne su dieci che hanno subito stalking online hanno anche subito almeno una forma di violenza fisica e/o sessuale da parte del partner e se il 71% degli autori di violenza domestica controlla il computer delle partner e il 54% ne traccia i cellulari con software per stalking. Vogliamo anche in questo campo un utilizzo di strumenti tecnologici che sia finalizzato ad arginare, prevenire, reprimere la violenza.
In questi anni, anche in termini formativi, abbiamo affrontato il tema della discriminazione insita nell’algoritmo, una discriminazione frutto di pregiudizi consapevoli e inconsapevoli di chi quegli algoritmi progetta, nella convinzione che spetti anche al sindacato il compito di indicare e chiedere un processo di trasformazione partecipato e inclusivo.
Il confronto su questi temi dovrà proseguire ed essere sempre più multidisciplinare, con un'attenzione particolare ai temi della digitalizzazione e della sua necessaria contrattazione, per contribuire ad affrontare, con un approccio insieme olistico e specialistico, le innumerevoli implicazioni che tecnologie nuove, in veloce diffusione, hanno ed avranno sui modelli di socialità e utilizzarne le potenzialità per rendere la società meno diseguale e più inclusiva.
Cinzia Maiolini, responsabile dell'Ufficio lavoro 4.0 della Cgil nazionale