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Difficile trovare un’azienda italiana che non abbia dovuto affrontare la sfida organizzativa che la gestione dell’emergenza ha lanciato. Per anni abbiamo discusso, talvolta in modo astratto, di adattamento delle organizzazioni alle esigenze di flessibilità che provenivano dal mondo esterno, ma in questa situazione tale esigenza ha assunto caratteri ancor più improrogabili che hanno messo a dura prova le imprese e i lavoratori.
Questo è anche uno degli aspetti positivi della crisi che ci troviamo a vivere, perché potrebbe imporci di rivedere alcuni punti cardine dell’organizzazione del lavoro nel nostro Paese, che hanno costituito oggettivi limiti a processi di maturazione e innovazione dei modelli produttivi.
Il riferimento, in particolare, è alla forte presenza di logiche organizzative di stampo fordista-taylorista, che sono ben emerse di fronte al tentativo di introdurre forme moderne di lavoro agile per gestire l’emergenza. Tentativi che si sono tradotti nella semplice traslazione della prestazione lavorativa dall’interno dei confini aziendali alle abitazioni dei lavoratori, senza concreti impatti in termini di autonomia rispetto ai tempi di lavoro e quindi rispetto alle logiche ancora dominanti di un controllo costante dell’attività lavorativa.
Se un tempo queste logiche avevano una loro giustificazione nel possesso da parte del datore di lavoro dei mezzi di produzione (le macchine, principalmente), quindi della sua conseguente prerogativa di farli funzionare nei luoghi e nei tempi da lui desiderati, oggi tutto questo pare quantomeno anacronistico per una quota sempre maggiore di lavoratori e imprese. L’alibi dell’impossibilità tecnologica di sciogliere i confini spazio-temporali del lavoro è stato rapidamente dissolto dal fatto che le imprese sono state in grado di delocalizzare nelle case dei lavoratori una grandissima parte delle attività.
Ciò che manca, però, è rendere questa mera traslazione una vera rivoluzione organizzativa. Qui il nodo è proprio quello legato alla permanenza di una cultura aziendale, ma spesso anche sindacale, refrattaria ad abbandonare le strutture tayloriste, perché ancora concepite come unica garanzia di un’organizzazione efficace che sappia gestire persone e processi.
Al contrario, però, oggi la domanda mutevole dei mercati, il ruolo sempre più invasivo del consumatore nelle decisioni aziendali, la competizione internazionale, richiedono processi molto più snelli e partecipati di quelli garantiti dalle catene gerarchiche e dall’ampissima divisione del lavoro dell’impresa novecentesca. In questa prospettiva, maggiore autonomia e coinvolgimento dei lavoratori nell’organizzazione del proprio lavoro non costituirebbero una concessione da parte delle aziende, ma deriverebbero dalla consapevolezza della necessità di una maggiore fluidità, corresponsabilità e flessibilità.
Per questo motivo, non è più possibile oggi per le imprese e il sindacato posticipare la messa in pratica del mantra spesso ripetuto di dirigersi verso un’organizzazione del lavoro per obiettivi, e non solo fondata sul monitoraggio costante della prestazione. Cogliere questa sfida significa promuovere un cambiamento profondo nel rapporto tra lavoratori e impresa, poiché la responsabilizzazione del lavoratore non può realizzarsi senza una sua partecipazione ad alcune decisioni organizzative.
La partecipazione, quindi, appare come uno dei requisiti, rispetto all’introduzione di forme di lavoro più agili, che producano uno snellimento di coordinate quali il luogo e il tempo di lavoro. In caso contrario, il rischio è quello di un fallimento sostanziale dei processi di flessibilità e modernizzazione, con lavoratori solo apparentemente liberati da logiche di controllo, ma di fatto non abilitati a prendere decisioni.
Una condizione, quindi, che non solo sarebbe controproducente per le performance aziendali, ma anche dannosa, sotto il profilo psicologico, per lavoratori e quadri intermedi. I primi, infatti, vedrebbero solo le conseguenze negative del venire a meno di quei confini che l’organizzazione dei tempi di lavoro tayloristi in fondo garantiva; i secondi faticherebbero a svolgere il proprio ruolo, che si tradurrebbe in forme ancor più complesse di controllo di un lavoratore che non possono neanche avere sotto i loro occhi.
Individuazione degli obiettivi, analisi ex post dei risultati, luoghi per l’informazione, la discussione e il confronto in merito alle strategie dei team. Tutti elementi che difficilmente possono essere governati a livello nazionale o definiti attraverso strumenti legislativi. Per questo il metodo delle relazioni industriali e le sue pratiche diventano oggi via maestra per la modernizzazione dell’organizzazione del lavoro.
Una sfida per il sindacato, che ha l’onere di fare un salto di qualità nella conoscenza di processi organizzativi sempre più digitalizzati e complessi. E una sfida per l’impresa, che abbandonando vecchi steccati deve cedere all’idea che senza il coinvolgimento dei lavoratori le asimmetrie informative oggi non possono essere gestite né si avranno flessibilità e sviluppo. E allora potremo anche tornare a parlare di produttività senza che questo sia, da entrambe le parti, un tabù.