Se partissimo dalla realtà e dalle tendenze di oggi, la previsione su come sarà il mondo nel 2030 sarebbe facile: sarà governato da un manipolo di imprese private; con il digitale tutti saremo ancora più connessi e soprattutto sorvegliati in ogni momento della nostra vita e amministrati e automatizzati nei nostri comportamenti da algoritmi predittivi; la crisi climatica e ambientale si sarà ulteriormente aggravata, ma ci saremo adattati attivando, come richiesto dal sistema, la nostra resilienza; la libertà e la democrazia saranno solo un ricordo sempre più sbiadito e tutto sarà mercato e digitale, dentro alla controrivoluzione politica e sociale di populismo, sovranismo, sovversivismo neoliberale delle destre globali.  

Questo ci dice il pessimismo della ragione. Ma restiamo ottimisti della volontà e quindi siamo convinti che la democrazia demolirà l’oligopolio della tecnologia; che sapremo vivere senza TikTok, senza ChatGPT e senza il metaverso e, anzi, riscopriremo concetti come giustizia sociale, solidarietà, limite, cura, privacy; che smentiremo il timore del filosofo francofortese Max Horkheimer (1895-1973) di arrivare infine a una società totalmente (totalitariamente) automatizzata e amministrata, dove agli uomini non resterà che il compito di rispondere ai segnali emessi dalle macchine; ma soprattutto, che negheremo la profezia per cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, riuscendo invece a far morire il capitalismo per salvare la Terra (e noi stessi).  

Per realizzare questo ottimismo della volontà dobbiamo però svestirci dell’attitudine di delegare ad altri – oligarchi del capitalismo e della Silicon Valley, algoritmi, Intelligenza artificiale, populisti e tecnocrati – il cambiamento, e noi solo subirlo come un dato di fatto che si deve solo accettare; dobbiamo invece tornare a immaginarlo noi questo cambiamento e poi costruirlo da oggi secondo quel principio di responsabilità pensato dal filosofo Hans Jonas (1903-1993) e quello che deve diventare il nostro nuovo imperativo categorico da qui al 2030 (e molto oltre), cioè: agisci in modo che le conseguenze della tua azione di oggi non distruggano la possibilità futura della vita

E invece, in questi quarant’anni di neoliberalismo e di nuove tecnologie (in realtà tutto inizia con la rivoluzione industriale) e delle loro false promesse di libertà, quasi tutti si sono adattati (fatte salve le doverose eccezioni) alle esigenze di quello che chiamiamo tecno-capitalismo, cioè il sistema integrato e sempre più reciprocamente funzionale di capitalismo e tecnologia e che discendono a loro volta da quella razionalità strumentale/calcolante-industriale egemone da tre secoli a questa parte e che è finalizzata unicamente e deterministicamente all’accrescimento illimitato del profitto e insieme del sistema tecnico e in questa illimitatezza sta la vera radice della crisi climatica e ambientale. Quindi dobbiamo distinguere – come premessa a ogni immaginazione e poi azione politica, sociale e anche sindacale – le tecnologie (macchine, robot, pc, algoritmi, piattaforme, smartphone) dalla tecnica, che è appunto e invece la razionalità che pre-determina il funzionamento del capitale e delle tecnologie. E che mira a realizzare un mondo (e una vita umana) organizzato, comandato e sorvegliato sul modello positivista dell’industria (o meglio, della fabbrica). E infatti ormai tutto è industria/fabbrica, dalla produzione al consumo, dall’industria del divertimento e dello spettacolo all’industria culturale e a una scuola finalizzata solo a produrre competenze a fare e non conoscenza per pensare, dal taylorismo digitale ai social. 

Un processo di adattamento ben sintetizzato dall’ideologo neoliberale Walter Lippmann (1889-1974), per il quale compito e funzione del neoliberalismo (ma noi diciamo anche della tecnica) è modificare l’uomo, adattandolo alle esigenze della produzione, accompagnando «la rivoluzione industriale in tutte le fasi del suo sviluppo». E così, in Italia ma analogamente nel resto del mondo, dal Pacchetto Treu al Jobs Act e oggi alle politiche antisociali e neoliberali-aziendalistiche del governo Meloni, tutto è finalizzato a far adattare società e lavoro e lavoratori alle esigenze del tecno-capitalismo. A trasformare il lavoro da diritto a merce (Gallino, 2007), sempre più flessibile e precario e low cost.  

Capire l’oggi per immaginare il domani

Gli effetti di questa ideologia neoliberale profondamente illiberale (diventata egemone avendo colonizzato psicologicamente noi tutti a credere che non vi siano alternative) sono stati così sintetizzati dall’economista Joseph Stiglitz: 1) le regole economiche neoliberiste hanno creato maggiori disuguaglianze; 2) la finanza non è più al servizio dell’intera economia ma solo di se stessa; 3) i sistemi fiscali incoraggiano la speculazione e l’elusione fiscale da parte delle multinazionali; 4) «le politiche monetarie e fiscali ignorano le vere minacce alla prosperità economica, cioè la crescente disuguaglianza e il sotto-investimento e hanno prodotto più disoccupazione, più instabilità e meno crescita»; 5) «nel mercato del lavoro, i cambiamenti delle leggi, delle norme e dei regolamenti hanno indebolito il potere dei lavoratori, che ora hanno più difficoltà a contrapporsi agli eccessi di potere delle imprese»; 6) «la disuguaglianza è stata una scelta politica» delle élite neoliberali e delle tecnocrazie (Stiglitz, 2016). 

A questi sei punti dobbiamo aggiungere l’aggravarsi della crisi climatica e ambientale, che il tecno-capitalismo non vuole risolvere davvero perché ciò implicherebbe la messa in discussione della propria irrazionalità strumentale/calcolante-industriale; e le nuove tecnologie, offerte negli anni novanta con la promessa che grazie ad esse avremmo lavorato meno, fatto meno fatica e saremmo entrati in una nuova era di crescita infinita (ancora Stiglitz), mentre è accaduto esattamente il contrario – esito in realtà implicito nell’essenza della razionalità positivista/tecno-capitalista – e oggi ci ritroviamo a lavorare e consumare h24, a tempi-ciclo intensificati, iper-stressati e iper-sfruttati, con il tempo della vita confusosi con il tempo di lavoro quale che sia la forma di questo lavoro.

Nella evaporazione della politica come progetto, della società civile e del pensiero critico, il sindacato è rimasto uno dei pochi soggetti attivi della polis politica e sociale. La Cgil in particolare – di Cgil stiamo parlando – ha fatto resistenza ma anche proposta e progetto (ad esempio con la Carta dei diritti, legge di iniziativa popolare sostenuta da un milione e mezzo di firme); ha fatto dissenso sfidando l’egemonia tecno-capitalista e avendo contro la gran parte dei mass media e delle fabbriche di produzione e ingegnerizzazione del consenso. Lo ha fatto opponendosi alla modifica dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e alla contro-riforma costituzionale di Renzi, con gli scioperi contro il Jobs Act, con l’organizzazione delle lotte dei rider e contrastando la piattaformizzazione e remotizzazione del lavoro; per non dire della difesa classica dei posti di lavoro e della lotta culturale e politica contro il neoliberalismo. Poteva fare di più? Certamente sì (anche la Cgil non è esente da critiche), come tutti noi.

Il potere della tecnica e non solo del neoliberismo

Qui ci limiteremo allora a un approfondimento sul tema della tecnica/tecnologia, sperando sia utile per la riflessione dell’intera Cgil. Ribadendo però che non basta (ma è necessario) agire a valle sui processi di innovazione tecnologica e capitalistica (pensiamo allo stravolgimento globale del sistema della distribuzione e della logistica generato da un uomo solo come Jeff Bezos, a sua totale discrezione) – processi che avvengono al di fuori di ogni principio di democrazia e di responsabilità, determinando un pericolosissimo deficit di democrazia secondo Luciano Gallino (e secondo noi) –, ma bisogna agire soprattutto, a monte, su quella razionalità strumentale/calcolante-industriale che pre-determina l’utilizzo della tecnologia e l’azione del capitalismo. 

Per questo approfondimento dobbiamo però riconoscere preliminarmente che il sindacato e le sinistre del mondo (per le destre il problema non si pone, essendo tecno-capitaliste per vocazione) sono state per troppo tempo cieche, come lo stesso Marx, davanti al potere della tecnica. Tecnica che non è neutra, come troppi ancora credono, ma è autotelica/autopoietica, cioè tende a creare il proprio ordine e a imporre i suoi dispositivi e insieme genera la riproducibilità infinita di sé come sistema tecnico secondo un principio di continua e crescente convergenza/integrazione delle macchine tra loro e in macchine e sistemi di macchine sempre più grandi (Anders, 2007) e degli uomini con le macchine (e dei mercati, per il capitale, e si chiama globalizzazione): come oggi con la rete e il digitale, la forma appunto apparentemente nuova della invece tri-secolare divisione industriale del lavoro.

Tecnica dove (ancora Anders) le forme tecniche (i modi con cui funzionano le macchine) tendono a diventare forme sociali, facendoci funzionare e funzionali al funzionamento delle macchine, oggi addirittura ibridandoci con le macchine e sussumendoci nel tecno-capitalismo; e la rete ha appunto modificato i nostri modi di comunicare, socializzare, informarci, lavorare, amare ma a prescindere dalla nostra consapevolezza e dalla nostra volontà/decisione (ancora un deficit di democrazia), semmai noi tutti facendoci catturare dal feticismo per le nuove tecnologie e da parole magiche come smart, social e intelligente. Da qui il mantra tecno-capitalista per cui l’innovazione non si può e non si deve fermare mai. E invece dobbiamo imparare che si può e si deve fermare se minaccia società, biosfera e future generazioni. 

E per approfondire questi temi è di aiuto ancora oggi un intellettuale scomodo come Raniero Panzieri (1921-1964) che già sessant’anni fa scriveva: «le nuove basi tecniche via via raggiunte nella produzione costituiscono per il capitalismo nuove possibilità di consolidamento del suo potere». Ma invece di vedere e capire questi processi di «razionalizzazione crescente del capitalismo attraverso le macchine, essi vengono completamente ignorati a vantaggio» – anche da parte della sinistra e del sindacato – «di una rappresentazione tecnologico-idilliaca del processo tecnico». E qui occorre riconoscere che da allora la Cgil ha compiuto un importante sviluppo nell’analisi sulla tecnica, comprendendo che non è appunto neutra, facendo proprio un doveroso pensiero critico e ponendosi in questo modo molto più avanti – pensiamo a libri come IA: lavorare con l’intelligenza artificiale. Una cassetta degli attrezzi 4.0 (De Luca e Maiolini, 2021) e oggi al Forum Transizione 4.0 – di un pensiero di sinistra ancora catturato dentro a una rappresentazione tecnologico-idilliaca della tecnica

Ancora Panzieri: «la fabbrica si generalizza, tende a pervadere e a permeare tutta la società civile»; si tratta allora «di afferrare il fatto che la fabbrica scompare come momento specifico. Ma che lo stesso tipo di processo che domina la fabbrica, caratteristico del momento produttivo, tende a imporsi a tutta la società e quindi quelli che sono i tratti caratteristici della fabbricatendono a pervadere tutti i livelli della società (Panzieri, 1994). 

Ovvero la tecnica non libera dal lavoro e non libera il lavoro se l’uomo non ne controlla il funzionamento e soprattutto se non ne pre-determina consapevolmente i fini; se non lo fa, se delega sempre più a macchine che imparano da sole, allora la tecnica (con la tecnologia) sempre più serve ad estrarre una quantità sempre maggiore di lavoro e quindi di profitto privato. La tecnologia permettendo infine oggi al capitalismo di conquistare e di colonizzare (nel senso di sfruttamento delle risorse) nuovi ambiti di profitto precedentemente non raggiungibili dai processi di valorizzazione, quindi non più solo il lavoro umano (come nel Novecento), ma sempre più la psiche umana (emozioni, relazioni, affetti, passioni, valori, linguaggi, differenze), tutto tradotto nel Big Data del capitalismo della sorveglianza secondo Shoshana Zuboff, con un lavoro di produzione di dati dove si realizza il massimo di nostro pluslavorolavoro gratuito, cioè pluslavoro totale…). 

E se la fabbrica esce dalla fabbrica, tutta la società diventa appunto una fabbrica (organizzata, comandata e sorvegliata come una fabbrica) in cui ciascuno deve essere a produttività/prestazione/pluslavoro crescenti, ma sempre e solo per il capitale; e noi tutti diventiamo – lo scriviamo in La società-fabbrica (2023) – la forza-lavoro della società-fabbrica digitale; e se è corretta questa nostra ipotesi, che sviluppa quella di Panzieri ma non solo, allora cambia anche il ruolo e l’azione del sindacato. Ovvero, è sulla struttura della fabbrica – e non su quella data dalla proprietà privata dei mezzi di produzione – che da tre secoli si fonda l’oppressione sociale, come scriveva già nel 1934, criticando Marx, la filosofa francese Simone Weil (1909-1943), nel suo Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, la fabbrica essendo per noi la sublimazione della razionalità strumentale/calcolante-industriale.

Il conflitto tra capitale e lavoro-biosfera

E tutto questo conferma la persistenza di uno strutturale conflitto tra capitale e lavoro, che esiste oggi ancora più di ieri; conflitto che va quindi spiegato, riattivato e riportato sempre più sulla scena pubblica (anche qui, importante è l’azione di un sindacato come la Cgil, una delle poche voci rimaste di società civile), recuperando i concetti di sfruttamento e di alienazione. Un conflitto altrettanto strutturale che oggi (in realtà inizia anch’esso con la rivoluzione industriale) si allarga alla biosfera. Perché il capitalismo, grazie alla tecnologia, sempre più sfrutta l’uomo e la Terra e quindi è contraddittorio pensare di risolvere i problemi creati dalla tecnologia e dal capitale con più tecnologia e più capitalismo; semmai serve costruire – Landini, come ieri la Scuola di Francoforte con Marcuse e Horkheimer e poi la Laudato si’ di Papa Francesco – un diverso modello di sviluppo, una diversa idea di progresso, una diversa forma di lavoro, un digitale diverso. Secondo una diversa razionalità. Perseguendo cioè obiettivi sociali e ambientali – e rimandiamo al nuovo articolo 41 della Costituzione – e non tecno-capitalistici. 

E dunque, è tempo che il lavoro (tutti noi operai della società-fabbrica) si allei con l’ecologia. Per provare a rovesciare la profezia.

Bibliografia

Anders G., 2007, L’uomo è antiquato vol. II, Bollati Boringhieri, Torino.

De Luca A. e Maiolini C., 2021, IA: lavorare con l’intelligenza artificiale. Una cassetta degli attrezzi 4.0, Futura, Roma.

Gallino L., 2007, Il lavoro non è una merce, Laterza, Bari. 

Panzieri R., 1994, Spontaneità e organizzazione, Bfs Edizioni, Pisa.

Stiglitz J., 2016, Le nuove regole dell’economia, il Saggiatore, Milano.