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L’economia digitale è dominata dalla scienza dei dati, una sorta di quinta rivoluzione IT dopo il mainframe computing (anni Sessanta), il personal computer (anni Ottanta), internet/web 1.0 (anni Novanta) e web 2.0/social networking (anni Duemila). Quella che Luciano Floridi definisce la quarta rivoluzione industriale dominata dall’onlife e della hyperstoria.
Le soluzioni internet of things (IoT), big data, cognitive computing, artificial intelligence (AI), blockchain pongono nuove sfide etiche relativamente alla profilatura d’utente e gestione dei dati - personali e non. Citando John Naisbitt: “Per la prima volta abbiamo un’economia basata su una risorsa chiave - le informazioni - che non solo è rinnovabile, ma che cresce con il suo utilizzo. Non si corre il rischio che si esaurisca, ma di esserne sopraffatti”.
In effetti, fino agli anni Sessanta il progresso tecnologico è stato funzionale alla ricostruzione del dopoguerra, mentre il trentennio successivo ha visto un prorompente sviluppo ICT (information & communication technologies), che ha dato impulso a nuove forme d'interazione sempre più diffusa delle persone con le tecnologie emergenti, culminato alla fine del secolo scorso con la messa a disposizione di tutti di reti e servizi internet senza alcuna riserva o cautela.
Successivamente, con l’avvento della scienza dei dati e relative implicazioni (profilatura, sistemi predittivi, AI), il valore delle informazioni non risiede più nel loro solo scopo primario, ma anche (e soprattutto) negli utilizzi secondari.
La Rete può costituire un potente motore di sviluppo e creazione di nuova occupazione, purché si mettano al centro etica e bene comune per uno sviluppo socio-economico e ambientale sostenibile. Gli algoritmi sono non solo nei sistemi software di gestione delle attività aziendali, ma sempre più decidono impersonalmente le interazioni con le persone e le relazioni di “lavoro”.
È importante il rispetto delle norme che richiedono che l’ultima parola su temi etici rilevanti – tra cui quelli relativi al lavoro - sia di umani, non algoritmi - “human in/on the loop”.
Papa Francesco ha sottolineato il 14 novembre 2019 la necessità di un approccio etico agli algoritmi: “Le possibilità della tecnologia sono sempre più elevate. ... Faccio quindi appello agli ingegneri informatici, perché si sentano anch’essi responsabili in prima persona della costruzione del futuro … Tocca a loro, con il nostro appoggio, impegnarsi in uno sviluppo etico degli algoritmi, farsi promotori di un nuovo campo dell’etica per il nostro tempo: la algor-etica”.
Le nuove forme di lavoro ai tempi di internet riguardano oggi attività quotidiane di miliardi di utenti online, spesso in assenza d'inquadramenti salariali e protezioni normative. Per un numero crescente di lavoratori, semi-professionisti, persone in cerca d'impiego, semplici utilizzatori, il lavoro passa dalle grandi “piattaforme” digitali, che possiedono la capacità di gestire sia lavoro esplicito e frammentato di quote crescenti di lavoratori più o meno precarizzati (logistica, produzione intellettuale, micro-lavori ‘gig’, generazione like), che lavoro ‘implicito’, più o meno volontario e non retribuito degli utilizzatori, che tutti facciamo addestrando i sistemi d'intelligenza artificiale con i nostri like, re-Captcha o fornendo gratuitamente contenuti mediante user generated content (UGC), spesso strumentalizzando a fini commerciali i termini ‘condivisione’, ‘collaborazione’.
Da qui le diverse forme d'impiego e i conflitti generati dall’utilizzo delle piattaforme, nuove forme di organizzazione sociale ("capitalismo delle piattaforme") con scenari incerti per il “futuro del lavoro” più che per il “lavoro del futuro”.
Per poter essere "consum-attori" consapevoli nel dispiegamento di ecosistemi digitali intelligenti e, al tempo stesso, etici e socialmente responsabili, e gestirne i processi e le implicazioni sociali, occorrono competenze specifiche e trasversali, incluse quelle relative agli “algoritmi” di apprendimento automatico/AI - eXplainable Artificial Intelligence (XAI).
Occorre vigilare su tali algoritmi, anche per contrastare sbilanciamenti di potere contrattuale “piattaforme-individuo” (nuovi lavori). Occorre attuare una innovazione ‘responsabile’, con particolare riguardo alla tutela dei dati personali/diritto alla privacy nelle nuove frontiere della scienza dei dati, e alla vigilanza sullo (stra)potere degli algoritmi e piattaforme per la salvaguardia dei diritti degli utenti e dei (nuovi) “lavoratori” del settore, specialmente le categorie più deboli e meno scolarizzate. Vigilare quindi su temi quali minacce di sfruttamento lavorativo (ai limiti della schiavitù) di categorie con poco potere contrattuale, possibili spaccature sociali tra gli ‘ultimi’.
C’è infatti il serio problema dei potenziali costi sociali indotti dall’innovazione tecnologica. Le nuove tecnologie nel breve/medio termine riducono i posti di lavoro (soprattutto quelli di bassa specializzazione), ancorché una formazione ICT specifica dovrebbe aprire, nel medio/lungo termine, nuove opportunità nei settori emergenti (Impresa 4.0, robotica, intelligenza artificiale, data science), aumentando le possibilità di nuova occupazione, come generalmente accaduto nelle grandi trasformazioni sociali precedenti. Tali trasformazioni hanno però spesso comportato periodi transitori (più o meno lunghi e tragici) di assestamento, con moti di piazza, repressioni.
È pertanto necessario che si instauri una vigilanza “sociale” affinché l’etica dei comportamenti prevalga su opportunismi egoistici e rischi di sfruttamento e sopraffazione dei più deboli. Piattaforme, algoritmi, giganti del web stanno infatti creando mercati del lavoro fortemente instabili e precari, basati sulla totale e incondizionata disponibilità a fornire prestazioni e “micro lavori” al limite dello sfruttamento. I nuovi lavori “on-demand” della sharing economy (Uber, Airbnb, gig economy), se da un lato creano nuove occupazioni sfruttando l’innovazione, dall’altro sollevano quesiti ansiogeni circa la qualità e le protezioni del posto di lavoro del futuro.
E ancora: estremamente rilevante è il tema della sorveglianza. Circa il 90% degli utenti internet nel mondo (~4 miliardi di persone) viene monitorato in modo automatizzato grazie all’Intelligenza artificiale, attraverso la loro geo-localizzazione e sentiment analysis sui dati e relazioni sociali estratti dai social media. Le informazioni raccolte hanno un valore enorme, oltre che per le forze dell’ordine e agenzie di intelligence, per il controllo delle prestazioni ed efficienza lavorativa.
Infine, il tema delle disuguaglianze sociali. Una società equa e inclusiva deve mirare a combatterle (vedi Forum Disuguaglianze e Diversità), e l’innovazione tecnologica è (o dovrebbe essere) intrinsecamente adatta a fornire gli strumenti adeguati a contribuire al benessere di tutti e ridurre le disuguaglianze nelle e tra le nazioni, come recita anche il goal #10 dell’Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile.
Al contrario, purtroppo, il potere delle “piattaforme” sembra concentrare sempre più le ricchezze nelle mani di pochi, e ridurre il numero degli occupati. I big tech GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), oltre capitalizzare in Borsa quanto il quinto Pil mondiale dopo Stati Uniti, Cina, Giappone e Germania, e fatturare cumulativamente più del pil svizzero, impiegano tutti insieme meno di 2 milioni di lavoratori. Molti di essi a bassa competenza (come la logistica di Amazon, sempre più automatizzata e affidata a robot ‘human-assisted’), pochi ad altissima preparazione tecnologica (data management, intelligenza artificiale), mentre i livelli intermedi soffrono di marginalizzazione professionale e salariale.
Il mondo sta cambiando così rapidamente grazie alle tecnologie che occorre fermarsi a riflettere sull’esigenza di un afflato “umanistico” piuttosto che (solo) ingegneristico – troppa tecnologia “acritica” rischia di stritolarci. Occorre al riguardo porre enfasi non solo sulla formazione STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) ma anche MESH (Media literacy, Ethics, Sociology, History), salvo correre il rischio di formare persone tecnicamente competenti e brillanti che non hanno però le capacità per la cittadinanza democratica. Citando il compianto Stefano Rodotà, “Non tutto ciò che è tecnologicamente.
Fulvio Ananasso è presidente di Stati generali dell’innovazione