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Il tema della transizione digitale attraversa l’Europa dal 2010, anno in cui la Commissione Europea lanciò l’agenda digitale europea che faceva seguito alla Strategia di Lisbona e che per la prima volta evidenziava il ruolo chiave della TIC nel modello di sviluppo che l’Europa si era prefissata. Le dinamiche tecnologiche e globali mosse dall’innovazione digitale hanno fornito poi un rinnovato impulso alle politiche digitali europee nel corso di questi 20 anni, ponendo anche nuove sfide per la società e gli attori coinvolti, dai diretti cittadini, a imprese, istituzioni e parti sociali, per la creazione e la gestione di un mercato unico digitale basato sui dati. In questo quadro sono intervenute, prima la Strategia per il mercato unico digitale nel 2015 e poi la Comunicazione della Commissione “Plasmare il futuro digitale dell’Europa”, che si è concentrata su tre obiettivi chiave: tecnologia al servizio delle persone, economia equa e competitiva e società aperta, democratica e sostenibile. Per affrontare il decennio 2021-2030, con le sfide e le complessità generate e ampliate anche dalla pandemia da Covid19, è intervenuta da ultimo la Bussola per il digitale 2030 che prova a tradurre in termini concreti le ambizioni digitali per il presente decennio e a porre nuovi obiettivi da raggiungere, sottolineando l’incidenza del digitale per lo sviluppo e la resilienza del tessuto socio – economico europeo.
Nella linea temporale in cui si sono sviluppati questi indirizzi europei è sul termine transizione digitale piuttosto che su quello di trasformazione che mettiamo l’accento, perché ciò che viene impattato in un domino, non riguarda soltanto l’innovazione dei mezzi di produzione, ma cambiamenti radicali del processo produttivo e dell’organizzazione del lavoro, che si accompagnano necessariamente a un cambiamento culturale: quando parliamo di incidenza del digitale, ad esempio, questa non può essere semplicemente liquidata con il tema del lavoro da remoto o dello smartworking, ma chiama in causa intelligenza artificiale, blockchain, Internet of Things (IoT, superato ormai dall’Internet of Everything - IoE, di cui riprenderò più oltre), cybersecurity e, in genere, tutte quelle modalità di integrazione del digitale che possiamo declinare come “human+machine”.
Ed è sul fattore umano, file rouge delle normative europee sul digitale, che voglio soffermarmi. Di fronte ai cambiamenti che la società deve affrontare e al definirsi di una realtà con contorni nuovi rispetto al mondo conosciuto, si sono poste nuove sfide che rendono cogente in maniera trasversale il tema della formazione e delle competenze, fattori imprescindibili di un modello di sviluppo che sia possibile e sostenibile e che tenga al centro le persone nonostante i dati. Dati e persone che potrebbero essere oggi considerati due facce della stessa medaglia dunque, nel passaggio dall’IoT (internet delle cose) all’IoE (che estende il concetto ricomprendendo anche persone, processi e dati). Nei documenti della Commissione Europea (Libro Bianco del 2020, Comunicazioni al Parlamento e al Comitato Economico e sociale e al Consiglio europeo), il richiamo è costante: il possesso e la capacità di gestione degli uni, i dati, è fondamentale per governare i nuovi paradigmi e indirizzare un differente modello di sviluppo in cui le persone non siano soggiogate all’algoritmo ma restino centro di una società sostenibile e di un lavoro dignitoso e di qualità. Parafrasando Einstein, siamo di fronte alla necessità di superare le vecchie mappe e adattarle per poter esplorare il nuovo mondo.
Le nuove mappe hanno bisogno di competenze digitali e non, che permettano di saper leggere, comprendere, analizzare, per gestire il mondo iper-digitalizzato e contenere lo strapotere dell’algoritmo. Se, come ribadisce la Commissione Europea, la posta in gioco è altissima, con un volume di dati prodotti a livello mondiale in crescita esponenziale (si stima che il volume dei dati passerà dai 33 zettabyte del 2018 ai 175 zettabyte nel 2025) e un cambiamento radicale delle modalità di conservazione ed elaborazione dei dati nei prossimi cinque anni, nuove competenze professionali e relazioni sociali su cui investire sono fondamentali per prepararsi a scenari lavorativi trasformati, in cui sarà necessario supportare quei lavoratori e quelle lavoratrici obbligati ad affrontare un processo di riconversione professionale, in assenza del quale rischiamo l’innesco di ulteriori disparità economiche e sociali difficilmente ricomponibili.
È in questo meccanismo che cresce la richiesta e la necessità di elevate e specializzate competenze nel settore dell’intelligenza artificiale – da uno studio realizzato da Linkedin nel 2021 risultano oltre 60mila le posizioni di lavoro aperte in tutta Europa, 2mila nella sola Italia) – e il ruolo anche dei quadri e delle alte professionalità, obbligati a leggere e gestire i mutamenti in corso in maniera previa, al fine di accompagnare questi processi e finalizzarli in misura positiva. Temi quali il reskilling e l’upskilling riguardano e riguarderanno, infatti, fasce sempre più ampie di lavoratori e lavoratrici: il lavoro del prossimo futuro – centrato sulla transizione digitale – vedrà sempre di più la polarizzazione tra basse professionalità e alte professionalità, in cui da un lato le competenze digitali e altamente specialistiche saranno altamente ricercate e dall’altro si verificherà un allargamento delle disuguaglianze. Il Rapporto 2020 del World Economic Forum (The Future of Jobs Report 2020, World Economic Forum, ottobre 2020) ci ricorda che la forza lavoro si sta automatizzando più velocemente del previsto, spostando 85 milioni di posti di lavoro nei prossimi anni (entro il 2025) e che proprio nel 2025 – accanto all’elevato grado di specializzazione – saranno fortemente richieste le competenze trasversali e relazionali, in particolare il pensiero analitico, la creatività e la flessibilità saranno tra le principali soft skills desiderate. I dati Ocse dell'Outlook 2021 restituiscono una fotografia altrettanto preoccupante: la digitalizzazione e l’automazione di processi e mansioni farà sì che alcune delle competenze necessarie anche per svolgere compiti di routine e spesso utilizzate intensamente in alcune occupazioni saranno sempre meno rilevanti.
Un fenomeno che, già prima della pandemia, rischiava di provocare la scomparsa del 15% delle professioni attualmente esistenti, mentre per un 32% si renderebbe necessaria la riorganizzazione e riqualificazione delle mansioni e l’apprendimento di nuove competenze. Non si tratta, dunque, solo di definire i perimetri di un set di competenze necessarie, ma di tracciare scenari di sviluppo delle professionalità, per contribuire a quell’ecosistema di eccellenza e di fiducia (come richiamato dalla Commissione Europea nel Libro Bianco sull'intelligenza artificiale) lungo l'intera catena del valore, a cominciare dalla ricerca e dall'innovazione, che metta al centro un modello di sviluppo basato sulla persona e sulla condivisione dei dati.
Il lavoro del futuro, in una cornice digitale, ci deve vedere impegnati già oggi, dunque, come Cgil nel trovare nuove risposte a un mondo del lavoro che è cambiato e continua a modificarsi, e nel definire percorsi possibili per mantenere un lavoro di qualità, difendere e allargare i diritti, mettendo al centro la persona con tutte le sue esigenze. La transizione digitale, insieme a quella ecologica, che costituiscono l’orizzonte stesso del PNRR, chiede a tutti gli attori coinvolti di rinsaldare il valore del dialogo sociale e della contrattazione collettiva come strumento di governo del digitale e del mercato del lavoro e per la definizione di regole condivise di gestione dello stesso.