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“Anche loro non sono d'accordo su tutto, ma quando si tratta di soldi non si dividono mai”. A dirlo è Laurent Amedeo, sindacalista con la divisa della Cgt, personaggio interpretato da Vincent Lindon nel film In guerra di Stéphane Brizé (2018). Gli operai si spaccano, i padroni no. La fabbrica francese della Perrin, immaginaria ma plausibile, ha deciso di chiudere perché è stata acquistata da un gruppo tedesco: la produzione verrà delocalizzata con 1.100 licenziamenti. I lavoratori protestano in strada, si inchiodano ai cancelli. È tutto chiaro fin dal titolo: una guerra, come sempre, il conflitto tra lavoro e capitale. E la preposizione “in” che indica l'ostinazione di accettare una sfida: gli operai scelgono di lanciarsi in battaglia, non si arrendono ma resistono, in verità non è neanche una scelta, c'è la guerra punto e basta. In mezzo al conflitto si è obbligati a combattere.
Il cinema sul lavoro nei nostri anni ha appena trovato una delle sue più potenti declinazioni: questo film di Brizé, che forma un dittico con il precedente La legge del mercato (qui la recensione). È la storia di una vertenza, con gli operai licenziati che protestano per quasi due ore, fino ad arrivare alla testa straniera della nuova proprietà, ma è anche la messinscena più centrata sullo spirito del tempo: mentre procede la mobilitazione, infatti, i manifestanti sono costantemente ripresi da telecamere, telegiornali e giornali, vengono condivisi sui social network. Un video girato col cellulare può cambiare la percezione dell'opinione pubblica e l'esito della lotta. Perché tutto, oggi, è questione di opinione costantemente polarizzata: sì o no, bianco o nero, pro o contro, lovers o haters. Mi piace o non mi piace. Per esempio, gli operai al culmine della rabbia rovesciano l'auto dell'amministratore delegato del gruppo, ovviamente filmati, e come quella macchina si ribalta anche la posizione dei media, tutti sono contro di loro. Così In guerra esce dallo statuto teorico di film novecentesco ed entra nel Duemila, all'epoca della condivisione su Facebook con cui fare i conti, anche nella forma narrativa.
Curiosamente simile al destino del sindacalista Laurent è il personaggio di Aymeric in Serotonina, l'ultimo romanzo di Michel Houellebecq: si tratta di un agricoltore francese stritolato dalle leggi sulle quote latte, che non viene protetto dallo Stato e non può resistere alle importazioni, dunque alla stessa globalizzazione che chiudeva la fabbrica Perrin. Nella sottile distopia di Houellebecq, poco diversa dal presente, gli agricoltori stremati organizzano una dura protesta, anche loro entrano in guerra, come Laurent si oppongono al nemico invisibile del capitalismo. La lotta di classe oggi è radicalmente mutata, lo sanno sia Brizé sia Houellebecq, non c'è più il "comodo" scontro tra operai e padrone, comodo perché permetteva di individuare l'avversario che ora non si vede: lo racconta mirabilmente In guerra inscenando i dirigenti locali, perfino gli inviati del governo che non sanno rispondere agli operai perché la proprietà è in un altro Paese.
Ken Loach, come noto, è autore del Novecento. È meno chirurgico, più sentimentale e umanista: chiama all'empatia con il protagonista Dan in Io, Daniel Blake (2016), titolo che contiene l'affermazione del nome, quello di un carpentiere con problemi di salute che finisce vittima del sistema di welfare, senza assegno di malattia né indennità di disoccupazione, costretto a chiedere e quindi a rischio dignità. In oltre cinquanta anni di cinema Loach ha sempre raccontato il modello ingiusto, la burocrazia contro il cittadino, le storture dell'occupazione: continuerà a farlo nel prossimo Sorry We Missed You (2019) che sta girando adesso, la vicenda di un fattorino e sua moglie nel mercato del lavoro in Inghilterra oggi.
Anche in Italia c'è traccia di cineasti sociali. Come Daniele Vicari, che parla di una donna al lavoro in Sole cuore amore (2016): una ragazza con marito e figli, che attacca in un bar all'alba, unica fonte di reddito, trascura gli affetti e soprattutto la salute, si ammala e avvita in una china pericolosa. Come lui anche altri: Valerio Mastandrea, che da regista ha appena firmato Ride (2018), storia di Carolina, la moglie di un operaio morto in fabbrica e costretta a sopravvivere al lutto. Oppure Ciro Formisano, con il suo esordio che si chiama L'esodo (2017), parabola di una donna improvvisamente incastrata nel limbo senza reddito né pensione, per effetto della riforma di una ministra: il racconto non fa nomi ma è Elsa Fornero, e la protagonista risponde al neologismo dell'esodata. Dai disoccupati ai precari, dai giovani alle donne, passando per gli infortunati, difficile trovare un segno comune nei vari tentativi, più o meno riusciti, se non nei tentacoli del mercato che strozza i più deboli. Nel dominio dei ricchi. Nell'iniquità resa sfacciata della crisi. Lo ha detto Vincent Lindon in una nostra intervista: “Il lavoro è una guerra per non farsi divorare”.
Il cinema va anche al congresso della Cgil a Bari. Il sindacato porta le proiezioni dal 22 al 24 gennaio alla Fiera del Levante (qui il programma). C'è Pane e Libertà di Alberto Negrin (2009), il film su Giuseppe Di Vittorio che verrà proiettato per le scuole. C'è 967 Il tempo del noi di Mimmo Calopresti (2018) che segue la mobilitazione di oggi. Ci sono cortometraggi, incontri e tavole rotonde. E c'è anche Il giovane Karl Marx di Raoul Peck (2017), che racconta Marx e Engels da ragazzi in modo spettacolare, come una coppia rivoluzionaria in fuga dall'autorità, che proprio fisicamente “si aggira per l'Europa”: è la origin story di un'ideologia, certo, ma anche un dolce racconto sulla giovinezza.
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