Il ragionamento non fa una piega. Noi siamo la Chiesa cattolica e disponiamo di tutti gli strumenti necessari: dalla roccia della fede alla disponibilità morale, dalla più recente esperienza storica a quel tanto di flessibilità che ci consente di aiutare a spostare in avanti il destino del mondo. Se il pregiudizio razziale ha resistito fin qui in varie forme, noi possiamo e dobbiamo fare la nostra parte, per debellarlo una volta per tutte e per creare quella giustizia larga che la comunità umana merita.
Non vorremmo aver letto troppo nelle parole di Wilton Daniel Gregory, arcivescovo metropolita di Atlanta, primo presidente coloured della conferenza episcopale. Parole dette a caldo ai giornalisti, dopo il trionfo di Barack Obama. Esattamente queste: “Grazie agli ultimi pontificati la Curia è diventata internazionale, ora la Chiesa è pronta ad un papa di colore”. Si pensa e si parla al futuro. Ma già oggi la strada appare teoricamente aperta. Questa strada l’ha tracciata un ragazzo di pelle scura, giovane patinato come un nero “bene” di un tennis club, ma pervaso da uno strano fuoco che si alimenta di tutte le cose impossibili di una volta.
“L’elezione di Obama è un grande passo per l’umanità, il segno che negli Stati Uniti il tema della razza e il problema della discriminazione sono stati superati”. Anche nella Chiesa? “Anche la Chiesa ha fatto balzi in avanti impressionanti. Penso che in Vaticano abbiano svolto un eccellente lavoro per rendere internazionale e cosmopolita la Curia, portando a Roma membri di un grande spettro di razze e nazioni per assistere il Papa. Lavorano insieme affinché la Chiesa possa dar prova della sua reale identità mondiale”. Forse la cerchia europea si è fatta già stretta per scegliere il Papa: “Se Obama alla Casa Bianca è come il primo uomo sulla Luna, sicuramente può accadere lo stesso sul soglio di Pietro”. Ma non è un processo che comincia oggi. “E’ stato Giovanni XXIII a far entrare aria nuova nelle sacre stanze. Poi Paolo VI ha allargato al mondo l’orizzonte della Chiesa, i viaggi, Stati Uniti, Terra Santa, Filippine. Lì è maturata l’apertura della Chiesa verso altre culture, verso aree del mondo diverse e lontane dall’Europa”. Poi Wojtyla con il suo apostolato itinerante e, adesso, Benedetto “con il suo talento speciale”.
E’ una voce di dentro, che si sovrappone e si appropria di un evento da altri scatenato ma dal quale non vuole e non può estraniarsi. C’è pur sempre da preservare il contatto con i sussulti di un mondo laico mai quieto, in perenne mutazione. O non è forse, in campo teorico (ma per essa teologico), che in questi giorni la scienza della Chiesa ricerca un qualche contatto con il già dannato darwinismo? Il caso Obama non ammette esemplificazioni, c’è solo da comprenderlo fino in fondo, gestirlo nei prevedibili momenti di difficoltà. Non a caso entusiasmo e timori si fondono, in Vaticano, alla ricerca di una linea razionale che valorizzi il nuovo senza abbassare la guardia dinanzi al fortino dei cosiddetti valori non negoziabili. Ne fa testo il messaggio augurale di Benedetto XVI, solo in parte divulgato dalla Sala Stampa di via della Conciliazione. Nella prima parte l’elezione di Obama viene definita “occasione storica”. Qui si esaurisce rapidamente la dose di entusiasmo. Molto più significativa la parte seconda dove il Papa annuncia “le sue preghiere a Dio perché lo assista nella sua alta responsabilità nel Paese e negli ambiti internazionali”. Linguaggio ineccepibile dal punto di vista diplomatico, in realtà si tratta di un’apertura di un confronto che indubbiamente si vuole amichevole ma che implica l’esame di tutta una serie di questioni in sospeso, ivi comprese le strategie dei rapporti tra gli Stati. L’Osservatore Romano non ha certo lesinato lo spazio al trionfo di Obama, grossa “apertura” con foto di famiglia, più un commento dal titolo assai positivo, anzi augurale – “Una scelta che unisce” – dove inevitabilmente si dà spazio alle “grandi sfide politiche, sociali, economiche, morali che lo attendono”: in pratica tutto quanto attiene al rapporto interno della Chiesa americana ma anche al ruolo delle relazioni tra Usa e Vaticano sullo scacchiere mondiale.
E’ un passaggio normale ad ogni cambio di presidenza, lo è tanto di più quando ciò avviene in maniera così spettacolare. In queste ore fonti diplomatiche della Santa Sede stanno già sensibilizzando qualche “vaticanista” particolarmente attento al versante politico. Si ricorda, senza per questo menarne scandalo, la natura liberal delle idee che ispirano i programmi di Obama. Vada per tutto il resto ma con le complesse, delicate questioni della vita, aborto e bio-etica in primis, dovrà essere esercitata una robusta dose di attenzione. In tal senso ci si richiama alle apprensioni sia della Curia che dell’episcopato. Obama si è sempre dichiarato pro-choice, cioè per la libera scelta in materia di aborto. Questo non piace, è noto, si tratta di trovare l’approccio giusto. L’atmosfera politica interna cambia e ancor più cambierà nelle prossime settimane. La Santa Sede e personalmente Benedetto XVI avevano trovato non uno ma infiniti punti di contatto con W.Bush. Anzi, un “asse fortissimo” dopo il viaggio in Usa di aprile, precisa la fonte. Ora bisognerà porre di nuovo mano a molte cose, anche nell’ambito della politica internazionale. La Santa Sede accoglierebbe assai bene la chiusura dei conflitti osteggiati a suo tempo e con molto vigore da Karol Wojtyla. Oltretutto questi conflitti non hanno impedito il diffondersi delle persecuzioni contro i cristiani, fatti sui quali il Vaticano intende richiamare l’attenzione del grande amico americano. Bush aveva già cominciato ad esercitare pressioni sull’India. Evidentemente ciò che alla Chiesa sta complessivamente a cuore è, anche e soprattutto negli States, il ruolo sociale e pubblico della religione cattolica. A Ratzinger piace molto quello che egli chiama, in questo campo, “modello americano”, considerato come valido baluardo contro il sempiterno nemico del relativismo morale e della secolarizzazione. La diplomazia vaticana apprezza in modo particolare l’annunciato realismo di Obama. E ci fa conto. Ricordando che la Chiesa cattolica si è collocata sempre in primo piano nella battaglia per l’integrazione razziale. Nessuno può negarlo. Un elemento di forza che vuole far contare nei confronti di Obama l’eletto.
Entusiasmo, attenzione, preoccupazione. Per trovare la ricetta giusta è già in azione una sorta di “Unità America”, guidata personalmente dal segretario di Stato, Tarcisio Bertone, coadiuvato dal ministro degli esteri monsignor Dominique Mamberti, dal nunzio a Washington, Pietro Sambi, dall’osservatore all’Onu, Celestino Migliore, dall’ambasciatore Usa presso il Vaticano, Mary Ann Glendon, dal cardinale di Chicago, Francis George, dal cardinale di Boston, Patrick O’Malley, più una ventina di esperti tra Curia e Stati Uniti. Uno sforzo in grande. Ma l’avvento di Obama è, appunto, evento grande. Si vorrebbe non sbagliare.
Un Papa nero, perché no?
A chiederselo non è un pretino della contestazione ma il vice presidente dei vescovi americani, nero anche lui: fu Giovanni XXIII a "far entrare aria nuova nelle sacre stanze". Poi vennero gli altri e "ora siamo pronti". L'impatto di Obama in Vaticano
6 novembre 2008 • 00:00