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Si sa, sono pochi, davvero pochissimi i cittadini e le cittadine a cui viene garantita l’assistenza domiciliare da parte del Sservizio sanitario nazionale. Intanto perché non tutte le famiglie conoscono questa possibilità e nulla viene fatto per mettere chi ne avrebbe diritto nella condizione di saperlo; poi perché la burocrazia necessaria ad attivarla è tale che spesso diventa una difficoltà insormontabile; infine perché tra i diritti previsti e quelli realmente erogati c’è un’enorme differenza.
La scoperta di un diritto
Poco più di un anno fa Clelia, figlia di una donna di oltre ottant’anni, ascoltando chiacchiere nella sala d’attesa di un ospedale, scopre che sua mamma invalida al 100% e affetta da diverse patologie che la rendendo solo in piccola parte autosufficiente, probabilmente avrebbe diritto alle prestazioni del Cad, il centro di assistenza domiciliare della Asl. Andando alla Asl romana nel quartiere della capitale dove vive, scopre che in effetti è così: sua mamma ha diritto ad essere presa in carico dal Cad, così potrà esser seguita a domicilio da un geriatra che in raccordo con il medico di medicina generale e con gli specialisti che la seguono per le patologie di cui è affetta, ed effettuare a casa analisi e prestazioni sanitarie di cui ha necessità. “Un miracolo”, pensa Clelia, visto che la mamma ha bisogno di monitorare settimanalmente l’andamento di una malattia ematologica e di essere sottoposta regolarmente a trasfusioni.
Un sogno presto infranto
Moduli compilati e consegnati, certificazione dello stato di invalidità dell’Inps consegnato, certificati sulle patologie invalidanti redatti dal Centro di ematologia e dallo pneumologo consegnati. E cominciano i problemi: il geriatra che doveva certificare la presa in carico ci mette più di un mese ad arrivare. Chiede la visita di un fisiatra, ma per averla ci vogliono oltre sei mesi di lista di attesa, ma senza quella non è possibile attivare la fisioterapia. Poi il gioco dell’oca per le trasfusioni. Intanto nel Lazio – chissà nelle altre regioni - vige una regola per la quale non è possibile effettuare trasfusione a domicilio se il valore di emoglobina non scende sotto 8 milligrammi. Peccato che la stessa regione scrive che i valori normali sono quelli che si attestano tra 12 e 16. Ma poi tra quando viene effettuato il prelievo che attesta che l’emoglobina è sotto 8 e quando la trasfusione – se tutto va bene – viene effettuata, passano almeno quattro giorni. Ma se passano oltre 3 giorni dall’esame del sangue senza che la trasfusione sia effettuata, occorre rifare l’esame dell’emoglobina: si torna alla base e ricomincia il giro. Nel frattempo l’emoglobina della signora scende ancora, mettendola a serio rischio di scompenso cardiorespiratorio (peraltro realmente avvenuto due volte negli ultimi sei mesi).
Errori su errori
Prelievi ematici settimanali saltati, trasfusioni ripetute anche due settimane di seguito con enorme dispendio di risorse anziché trasfondere due sacche, referti perduti. Fisioterapia richiesta dal medico della Asl a ottobre, a marzo ancora non se ne ha traccia. A ogni rimostranza e richiesta di chiarimenti, Clelia si sente rispondere che loro non sono mica un ospedale. Eppure sul sito della Asl c’è scritto che la presa in carico da parte del Cad prevede: visite specialistiche, visite fisiatriche (per prescrizione di prestazioni riabilitative), prestazioni riabilitative (fisioterapia e logopedia), prestazioni infermieristiche, educazione sanitaria/addestramento di caregiver (familiare, badante, volontario), prelievi, emogasanalisi, elettrocardiogramma, prescrizione di presidi. Sulla carta bellissimo, la realtà è assai meno bella.
Di chi è la colpa?
Il servizio di assistenza domiciliare esiste, ma non è in grado di erogare le prestazioni previste perché non ci sono le risorse. Pochi medici, pochissimi vanno a domicilio: geriatra, cardiologo, pneumologo, fisiatra ma da quando il medico di medicina generale chiede la visita a quando il sanitario realmente arriva passano mesi e mesi. No diabetologo, no nefrologo, solo per fare due esempi di specialisti indispensabili nella presa in carico di pazienti anziani non autosufficienti, ma le cui prestazioni non vengono erogate dal Cad. Non ci sono nemmeno infermiere e infermieri direttamente dipendenti dalla Asl: per quelli ci si avvale delle prestazioni delle cooperative in appalto. Ma anche per gli appalti le risorse sono limitate. E quanto si spreca a effettuare due trasfusioni ravvicinate, invece che trasfondere due sacche in un'unica seduta? Per di più, chi non ha una figlia disponibile e in grado – almeno in parte – di confrontarsi con una burocrazia ottusa e ostile non può fare altro che soccombere, non riuscendo nemmeno a chiedere ciò di cui ha diritto.
Il tradimento del Pnrr
Uno degli obiettivi della missione 6 del Pnrr era quello di istituire le case di comunità per la presa in carico di tutte le persone affette da patologie croniche, aumentare il numero dei cittadini e delle cittadine a cui garantire l’assistenza domiciliare e di aumentare le prestazioni erogate. Era, perché grazie al governo Meloni e alle rivisitazioni del Pnrr compiute dal ministro Fitto anche gli obiettivi previsti dal piano redatto dal governo Draghi, importanti ma già allora implementabili, sono stati tagliati. La pandemia sembrava averci insegnato che l’unico modo per garantire davvero il diritto alla salute sarebbe stato quello di potenziare la sanità di territorio. Invece con un tratto di penna Fitto ha deciso: via 414 case di comunità su 1.350, via 76 centrali operative territoriali su 600, via 96 ospedali di comunità su 400 per un totale di oltre due miliardi di risorse in meno.