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Troppi o troppo pochi? I medici, soprattutto per alcune specializzazioni, sono troppo pochi. E soprattutto non si trovano. Le cose sono destinate a peggiorare visto che l’età media del personale ospedaliero è assai elevata e già oggi si fa fatica a sostituire chi va in pensione. Mancano quelli di medicina di emergenza urgenza, mancano quelli di medicina generale, mancano i pediatra e i radioterapisti, solo per fare alcuni esempi. Eppure nelle facoltà di medicina continua ad esserci il numero chiuso per l’accesso alle professioni sanitarie: le ultime borse di studio per le specializzazioni mediche messe a bando nello scorso settembre non sono state coperte tutte.
La partita del numero chiuso
Molto criticata dalla Fp Cgil e dall’Udu, perché non risponde ai fabbisogni di salute dei cittadini e delle cittadine. Questi i numeri di quest’anno: solo 34 mila posti nelle università di tutta Italia, tra cui 20.487 per infermiere e infermiera, 2.832 per fisioterapista, 1.680 per tecnico di radiologia, 921 per tecnico per la prevenzione della salute; questi sono solo alcuni dei numeri, ma tutti insufficienti a garantire il fabbisogno ottimale del servizio pubblico. Il giudizio di Udu e Fp e netto e chiaro: “Siamo costretti ad esprimere il nostro disappunto per un metodo, quello del numero chiuso, che taglia fuori tanti validi candidati e candidate negando loro il diritto all’accesso agli studi universitari di conseguenza quello di voler fare il lavoro che sognano, costringendoli a dover scegliere tra aspettare un anno o cambiare percorso formativo e professionale, ma soprattutto che impedisce al Paese di fornire delle risorse di cui ha estremamente bisogno, a partire dal servizio sanitario nazionale”.
I candidati alle borse di specializzazioni latitano
Quest’anno il numero di borse disponibili per le specializzazioni erano 14.579, eppure non tutti i contratti sono stati sottoscritti, ne mancano all’appello ben 6125. Perché? Secondo Federico Amalfa dell’Udu: “Per noi la mancata sottoscrizione di oltre seimila contratti deriva da una molteplicità di fattori. In primo luogo la distribuzione delle borse rispetto alle domande e, elemento più importante, le prospettive lavorative future. I neo medici, infatti, tendono a scegliere quelle specializzazioni che consentono migliori prospettive lavorative, come la possibilità di lavorare anche da privati o il minore rischio di controversie legali”.
I numeri parlano
Secondo una elaborazione dei dati proposta dall’Associazione Als: “Il numero di contratti di medicina di emergenza–urgenza non assegnati, ad esempio, rappresentano il 76% dei posti sul bando. Un netto peggioramento rispetto al 2022 quando i contratti non assegnati rappresentavano il 61%. Rispetto all’anno scorso, ci saranno 128 specializzandi d’emergenza urgenza in meno. Sono stati banditi 855 contratti statali di medicina di emergenza-urgenza con un finanziamento economico di 109.440.000 euro per avere un quarto dei posti assegnati, e i dati storici degli scorsi concorsi ci dicono che il 20% di costoro abbandonerà durante gli anni di specializzazione. Pertanto, tra cinque anni avremo meno di due nuovi specialisti di medicina di emergenza per ogni provincia italiana (uno specialista Meu ogni 125.000 abitanti)”.
La loro condizione
Sono medici laureati, ma non hanno ancora finito il proprio percorso di formazione. Per esercitare nelle corsie degli ospedali o negli ambulatori di medicina generale, devono obbligatoriamente conseguire una specializzazione. Ovviamente la competenza della formazione è delle università che bandiscono borse di studio di specializzazione finanziate dal ministero della Salute, perché quei medici, per completare la formazione debbono stare, oltre che nelle aule universitarie, nelle corsie ospedaliere, nelle sale operatorie, a contatto con i pazienti. Allora capita, sempre più spesso, che interi turni di lavoro in corsia vengano coperti proprio da quegli specializzandi che però un contratto di lavoro non ce l’hanno ma vivono – magari in una città diversa da quella di residenza – con una borsa di specializzazione di 22.700 euro lordi annui.
Cosa fare per cambiare
Secondo Federico Amalfa: “In tempi brevi, è necessario estendere la finestra di iscrizione ai test d'accesso o consentire l'accesso in deroga, ponendo come limite di aver conseguito l'abilitazione entro la data di presa di servizio (1° novembre) così da includere anche chi dovesse conseguire la laurea nelle sessioni del mese di settembre”. Esiste poi una questione importante, quella di far in modo che qualsiasi sia l’università che si frequenta, venga ugualmente garantita la qualità della didattica. Dice ancora Amalfa: “Sotto il profilo della didattica e del bilanciamento fra questa e le attività pratiche, la questione è che ad oggi alle scuole di specialità è lasciata carta bianca sulla didattica da erogare nei percorsi e questo porta a situazioni completamente disomogenee. Secondo la nostra analisi, mantenendo comunque le peculiarità delle singole scuole è bene cercare di uniformare la situazione per garantire una conciliazione efficace fra didattica, ricerca e lavoro”.
L’intreccio lavoro e formazione
Questa è una delle questioni più delicate. Il loro status è ibrido, lavorano ma non hanno le tutele del contratto collettivo nazionale, non solo – ovviamente – quelle salariali. Conclude infatti Amalfa: “Chiediamo una revisione del percorso di specializzazione che garantisca maggiori tutele ai futuri specialisti rispetto al loro status ibrido di lavoratori in formazione. Crediamo necessario un investimento strutturale sull'aumento delle borse e sull'adattamento di quelle destinate ai giovani medici che si trovano a svolgere la specializzazione in reti formative site su più città”.