A ondate asincrone si appalesano surfisti che affrontano il tema pensionistico con l’atteggiamento di chi, avendo maturato una certa competenza in materia, si sente in grado di compiere evoluzioni anche molto spericolate tra fatti, ipotesi, numeri e tabelle.

Sconcerta che spesso c’è un utilizzo oggettivamente strumentale degli elementi per suffragare il ragionamento proposto e di un certo linguaggio, a dir poco irriguardoso, rivolto a persone che, se restiamo su un piano generale, hanno lavorato per 35/40 anni, ricevono una pensione mediamente bassa (circa 1100 euro lordi al mese). Basti pensare che un operaio metalmeccanico dopo oltre 40 anni di lavoro riceve una prestazione pensionistica che si aggira sui 1600 euro netti al mese.

Veniamo al dunque. Lo strumento che tutela il potere d’acquisto delle pensioni, come noto, è il sistema di rivalutazione definito non casualmente “perequazione”, senza il quale si produrrebbe un danno economico al valore della pensione a causa dell’effetto dell’inflazione sul costo dei prodotti. I pensionati non hanno strumenti rivendicativi di tipo contrattuale, lo stesso aggancio delle pensioni alle dinamiche retributive è stato tolto ai primi degli anni Novanta; dunque è lo Stato che, ope legis, decide le regole del gioco, a volte in seguito al confronto con le organizzazioni sindacali, troppe volte in modo unilaterale.

Quando si scrive, come è capitato di leggere di recente su un settimanale, che “la pensione di 15mila euro maturata nel 2000, oggi, nel 2024 è diventata di 24.339 euro, cioè ingrassata di oltre 9mila euro” o “Vita da sogno per 437mila pensionati” (meno del 3% rispetto alla platea di oltre 16milioni di pensionati e pensionate) “persone che nell’anno 2023 hanno intascato dall’Inps una pensione conquistata entro l’anno 1984, cioè oltre 40 anni fa. Circa 245mila pensioni, quasi la metà, sono state maturate entro il 1980 e quest’anno, quindi, spengono le 44 candeline di vita…” non è chiaro se si vuole sottolineare una banalità per cui pensioni così basse sono state rivalutate del 62% più o meno in linea con il costo della vita nel periodo preso in esame (vedi Istat) o se, a una certa età, sarebbe bene uno sfoltimento demografico.

Per inciso, la nostra posizione è nota e convintamente rimane quella di vivere il più a lungo possibile in condizioni economiche e di benessere che salvaguardino una vita libera e dignitosa. Per chiudere sul punto è bene ricordare al “distratto” commentatore, che sulla perequazione il taglio non ha riguardato solo “le pensioni oltre dieci volte il minimo Inps, pari a 5.679,41 euro.”, ma la sforbiciata è partita da quelle oltre quattro volte il minimo. Cioè da circa 2300 euro lordi. I tagli nel solo biennio 2023/2024 sono stati pari a oltre 7 miliardi.

In altre parole, una pensione che nel 2000 era di importo netto mensile pari a 1.529 euro, nel 2024 è aumentata a 2.106 euro netti mensili, cioè la sua rivalutazione è stata del 38%. Al di sotto, dunque dell’aumento del costo della vita sopra citato. Infine un’annotazione di stile. Di quelle 437mila pensioni citate, come peraltro viene indicato dall’articolista, “115mila sono quelle a superstite (età media alla decorrenza di 36 anni)”. Si può comprendere che in qualche modo il mulino si tende a posizionarlo dove scorre l’acqua, ma è decisamente riprovevole affrontare così una questione che in grandissima parte riguarda donne che si trovano in quello stato quasi sempre per aver perso il congiunto in seguito a infortuni mortali sul lavoro.

Lorenzo Mazzoli è segretario nazionale Spi Cgil