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Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n. 3/2018 della Rivista delle Politiche Sociali. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla pubblicazione
I rapporti intergenerazionali e la questione pensionistica, che di quei rapporti è un pilastro importante, sono stati fortemente condizionati dalle scelte politico sociali del passato. Che queste scelte siano state da sempre in Italia condizionate da una visione dei legami familiari come realtà intangibile a interventi esterni, da cui è derivata una serie di effetti perversi che hanno contribuito a fiaccare la forza di quegli stessi legami, è un dato: declino della fecondità, accelerazione dello squilibrio demografico, ostacolo alla partecipazione femminile al mercato del lavoro, atrofia dei servizi, delega delle funzioni di cura a figure surrogate (donne immigrate), allungamento della permanenza dei giovani nella famiglia d’origine, freno alla mobilità e quant’altro possa ricondursi a questa forzata “familizzazione” della domanda sociale.
Familismo e “pensionismo” procedono in effetti in parallelo nella storia del nostro welfare. L’uno allontanando dallo scenario politico gli aiuti rivolti alle famiglie con figli e le politiche di conciliazione; l’altro spostando il baricentro del sistema sulla spesa previdenziale, dunque sulle generazioni più anziane. In un iniquo processo di compensazione, si scaricava così sul lavoro familiare delle donne l’onere di rispondere a una parte consistente della domanda sociale, con il beneficio delle classi politiche di alleggerirsi di voci di spesa allocabili altrove; allo stesso tempo, l’offerta di pensioni di anzianità con requisiti di accesso e importi delle prestazioni generosi rispondeva alle richieste sia dei lavoratori meno giovani, sia delle imprese (che potevano disfarsi della manodopera quando diventava meno produttiva, senza sostenere costi di riqualificazione), scaricando considerevoli oneri di lungo periodo sul bilancio pubblico.
La promessa di prestazioni generose – insostenibile nel lungo periodo in presenza di mutati contesti macroeconomici e demografici – garantiva nell’immediato cospicui consensi elettorali, accompagnati dal non trascurabile vantaggio di poterne scaricare il costo sulle generazioni a venire (si pensi alle baby pensioni e all’estensione di diritti pensionistici simili a quelli dei dipendenti offerti agli autonomi, che versavano però contributi di entità notevolmente inferiore). In entrambi i casi, si tratta di scelte finanziariamente e socialmente irresponsabili, che hanno scontato il futuro a saggi sempre più elevati, venendo meno a quella funzione della politica di esprimere una visione intertemporale degli interessi collettivi.
Era facile prevedere che quelle scelte avrebbero messo a repentaglio la sostenibilità di quel patto tra generazioni che stava a fondamento del sistema vigente; con conseguenze pressoché scontate già allora: che i cedimenti sul fronte delle contribuzioni, gli incentivi offerti all’abbandono precoce del mercato del lavoro, i più che vantaggiosi periodi di riferimento per il calcolo della retribuzione pensionabile, l’abominio delle baby-pensioni non avrebbero potuto essere mantenuti, dando luogo a una violazione potente delle regole a gioco ormai avviato; che il conto di quelle scelte sarebbe stato pagato in tasse e contributi, in minori servizi, in minore crescita, dalle generazioni future; che, come poi è in effetti accaduto con le riforme del 1992 e del 1995 seguite a quella stagione di euforia previdenziale, le cose sarebbero inevitabilmente cambiate e il sistema soppiantato da soluzioni più onerose per i nuovi arrivati e quindi doppiamente ingiuste per coloro che per una parte della loro vita attiva avevano già provveduto a pagare il costo di una promessa che non sarebbe stata mantenuta. Stando così le cose, è privo di senso parlare in Italia di un conflitto genitori-figli. L’errore di chi sposa questa tesi è quello di prendere la parte per il tutto, di confondere la famiglia con la società, il destino dei singoli con quello dei collettivi, e di appiattire i tempi sull’oggi mettendo tra parentesi il futuro.
Un errore che riporta indietro le lancette della storia di oltre un secolo, quando con l’introduzione delle prime forme assicurative garantite o mediate dallo Stato la solidarietà intergenerazionale passava dal circuito ristretto della famiglia e della parentela a quello “della redistribuzione intersoggettiva istituzionalizzata dallo Stato”. Dato il modello di società nel quale questo stato di cose ha messo radici, non v’è ragione di credere che possa nascere un conflitto fra genitori e figli; l’errore, semmai, sta nel credere che questo consenta di parlare per estensione di “solidarietà intergenerazionale”, quando invece il circuito solidale non fuoriesce dalla sfera familiare.
Cambiando registro, cambia la lettura della realtà. Affrontando l’analisi in senso dinamico è evidente che la questione non riguarda tanto un gruppo sociale, i giovani o gli anziani, i padri o i figli, quanto l’avvenire della società. Le penalizzazioni cui vanno incontro le giovani e future generazioni nella distribuzione delle opportunità e le loro sempre più ridotte prerogative non sono più qualcosa di contingente, di aleatorio; sono divenute un’invariante strutturale delle società occidentali a economia avanzata, con caratteristiche in larga misura trasversali rispetto ai regimi di welfare. Quanto avviene su questo fronte sta assumendo sempre più un carattere globale, che travalica i confini degli Stati nazionali.
La posta in gioco è ben altra, assai più importante. Non si riduce alla caricatura di un improbabile conflitto tra padri e figli, agitato (non senza successo, occorre ammetterlo) semplicemente per distrarre dall’attenzione collettiva le vere questioni, né al tema un gradino più su dell’equità fra generazioni. La vera questione scavalca la dimensione generazionale in quanto tale, quella limitata al confronto tra chi viene prima e chi viene dopo nella stretta successione temporale dei cicli di vita, per estendersi nel tempo e investire la sostenibilità degli assetti sociali costruiti nel corso del Novecento. Il discorso si sposta inevitabilmente su un piano più elevato; quello della sostenibilità di un modello sociale che non è in grado di garantire la sua continuità se non a prezzo di costi crescenti e profonde iniquità distributive, accentuate dalla creazione di rendite.
Sostenibilità nelle sue diverse accezioni, ivi compresa l’equità fra generazioni, da intendersi tuttavia in termini decisamente più larghi, in cui sono da includere la conservazione dell’ecosistema terrestre, la messa in questione dell’attuale modello di sviluppo, la crescita senza limiti dei consumi, le conseguenze dell’innovazione tecnologica e dei processi di automazione, la frattura fra mondo sviluppato in declino numerico e Paesi arretrati in forte aumento demografico, le crescenti diseguaglianze di reddito e ricchezza tra e nelle società, la capacità di fare fronte oggi e soprattutto domani a un processo d’invecchiamento in forte espansione da Nord a Sud, da Est a Ovest.
Michele Raitano è professore associato di Politica economica presso la Sapienza Università di Roma; Giovanni B. Sgritta è professore emerito di Sociologia alla Sapienza Università di Roma