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Alle 15 e 30 di lunedì 2 settembre è ancora in studio, eppure il suo orario di lavoro sarebbe terminato già alle 12 e 30. È appena rientrata da due settimane di ferie e nonostante in ambulatorio ci sia stata una sostituta, la dottoressa Martina dopo tre ore di “straordinario”, che nessuno le pagherà e che probabilmente aumenteranno, dice: “Devo ancora fare le domiciliari”.
Per passione
Martina è medica di medicina generale a Roma, è una di quelle che ha scelto questa professione. Ha scelto, infatti, di frequentare il corso regionale per l’abilitazione alla medicina generale pur avendo già conseguito la specializzazione in geriatria, che avrebbe potuto mettere a frutto sia nel pubblico sia nel privato. Probabilmente oggi, dopo gli anni della gavetta e di quelli dall’entrata in ruolo – Covid compreso e non ancora finito – forse sceglierebbe diversamente.
La sua passione è fare il medico, quello che ascolta i pazienti, che li guarda, li vede, che li tocca. Si occupa non solo di curare le malattie ma, nei limiti del possibile, di garantire loro benessere, qualità della vita anche se minata da patologie, salute. È quindi una di quelle che finito l’orario di studio – dal lunedì al venerdì, due mattine e tre pomeriggi a settimana – va a casa di quanti a studio non possono più andare. E copre i turni nella casa di comunità che la Asl ha aperto nel Municipio, garantendo assistenza anche di sabato e di domenica.
I problemi arrivano da lontano
“Non sono solo i carichi a rendere difficoltoso il nostro lavoro – afferma – i problemi nascono a monte. Innanzitutto c’è la formazione. Io so fare il medico perché dopo la laurea mi sono specializzata, e negli anni della specializzazione ho imparato dalla quotidianità della vita ospedaliera. Per diventare medico di medicina generale, invece, basta la laurea e un tirocinio formativo regionale. Io l’ho frequentato solo dopo essermi specializzata. Durante la frequenza chiesero a me di tenere un paio di lezioni specialistiche, perché non trovavano docenti disponibili”.
La laurea non basta
Quella della formazione universitaria è una delle questioni che da tempo pone la Fp Cgil. Martina racconta che più di una volta ha fatto da tutor a colleghi e colleghe che frequentavano il corso regionale subito dopo la laurea, accorgendosi che un conto è la laurea, un conto è saper misurare la pressione, auscultare un cuore, percepire con le mani sul torace di un paziente la diversità di toni e vibrazioni quando pronuncia “33” o respira profondamente. “Per fare il medico di medicina generale occorrerebbe una specializzazione universitaria”, afferma con convinzione.
Un rapporto di lavoro che non c’è
E non finisce qui. Per i cosiddetti medici di famiglia non esistono malattia e maternità, non esistono ferie. Tutto è a carico loro. Si crede che questo professionista sia per antonomasia il volto del Servizio sanitario nazionale, ma non è così. Per accedere al Ssn è sì indispensabile la sua mediazione, come per i farmaci, le prescrizioni, le richieste di visita, le indagini specialistiche, e per la prevenzione e la cura delle patologie. Ma il medico di famiglia è un professionista privato che con il Servizio sanitario attiva una convenzione. Viene “pagato” a seconda del numero di pazienti che lo scelgono, entro un tetto massimo fissato dallo Stato e dalle regioni, e delle prestazioni, se ad esempio decide di rendersi disponibile durante le campagne di vaccinazione.
Tutto a carico loro
“D’estate e d’inverno lo studio non può chiudere. Lunedì e venerdì mattina, martedì mercoledì e giovedì pomeriggio deve essere sempre aperto. Ma trovare chi mi sostituisca quando vado in ferie è una mia responsabilità. Peccato che non si trovino sostituti. Quest’anno ho cominciato a cercare a febbraio per potermi assentare dal 16 al 30 agosto. Ho trovato due specializzande che si sono alternate coordinando tra loro i turni in ospedale e i turni in studio. Ma ho rischiato seriamente di dover tornare a Roma la mattina, perché per loro quella fascia oraria è di corsia”. Martina dice di esser stata fortunata perché è riuscita a concordare un compenso di 100 euro al giorno, mentre spesso sotto i 150 non si trovano disponibilità.
Qualità dell’assistenza
Ovviamente per la sostituta niente visite domiciliari, e niente disponibilità telefonica fuori dall’orario di studio. In realtà, una buona parte del tempo delle sue ferie, Martina, che ha due figli adolescenti e – chissà se per fortuna o meno – un marito medico ospedaliero, lo ha trascorso al telefono con i pazienti e con la sostituta per dare indicazioni. Eppure al suo rientro ha trovato talmente tanto arretrato da non riuscire a tornare a casa.
Poi la burocrazia
Tagli, tagli, tagli e ancora tagli. E controlli su controlli. La regione Lazio, come probabilmente tutte le altre, fa di conto con risorse che sono davvero troppo poche. Ma che vengono anche utilizzate seguendo priorità non sempre condivisibili. Basti pensare che insieme alla Lombardia, è la regione che destina una quota assai consistente del proprio Fondo sanitario alle convenzioni con le strutture private. Poi “capita” che solerti funzionari delle Asl richiamino Martina, contestandole in un trimestre 14 usi impropri di antibiotico.
Martina è andata dal funzionario (non sanitario) per giustificare le prescrizioni. E gli ha spiegato che “grazie a quegli antibiotici una malata di sclerosi multipla ha evitato che una bronchite si tramutasse in polmonite, che un ultranovantenne con insufficienza renale grave potesse curare a casa infezioni delle vie urinarie ricorrenti, e che un’ultracentenaria evitasse il ricovero ospedaliero. Di tutte e 14 quelle prescrizioni, 14 non centinaia, ho dato motivazioni mediche a contestazioni di tipo economico-burocratico”. Ma quanto tempo ha perso la dottoressa sottraendolo alla sua vita privata e ai suoi pazienti? E perché un non sanitario richiama un medico contestando prestazioni sanitarie?
Mancano e mancheranno
Secondo la fondazione Gimbe mancano oltre 3000 medici di famiglia. E, stando ai dati forniti dalla Federazione Italiana dei Medici di medicina generale, entro il 2026 saranno 11.439 quelli che compiranno 70 anni, raggiungendo così l’età massima per andare in pensione. Come sostituirli? “Sarà sempre più difficile trovare chi voglia svolgere questa professione – afferma amara Martina – Troppa fatica, troppi costi, troppa burocrazia, troppi controlli non sempre appropriati”.
Il futuro?
Il desiderio della professionista romana è al contempo semplice e rivoluzionario: diventare dipendente del Servizio sanitario nazionale. Nella speranza che il pubblico torni ad essere centrale, che s’investa. E che, come per incanto o meglio per impegno sociale e politico, lo spirito della riforma del 1978 che istituì il Ssn rilanci la sanità. Assicurando a tutte e a tutti il diritto alla salute, così come Costituzione imporrebbe.