“Parlare della prospettiva previdenziale dei giovani vuol dire parlare del futuro delle nuove generazioni, dei loro progetti di vita, delle loro certezze”. E’ questa da sempre la convinzione della Cgil, che nel corso degli ultimi anni ha elaborato vari studi e proposte sulle pensioni future dei giovani. Per il segretario confederale della Cgil, Roberto Ghiselli, con delega alle politiche previdenziali, è urgente parlare di questo tema “perché o si interviene subito, o domani sarà troppo tardi”. La combinazione tra la diffusa precarietà del mercato del lavoro e una normativa previdenziale rigida e penalizzante per le generazioni più giovani, è infatti sempre più allarmante. La prospettiva che si consegna ai ragazzi è “un accesso alla pensione ben oltre i 70 anni di età o 45 anni di contributi, e un rendimento pensionistico basso perché calcolato con un sistema penalizzante”.

Le proposte della Cgil sono chiare. Si va da una modifica dell’attuale sistema di adeguamento alla speranza di vita, alla rimozione dei limiti dell’1,5 e 2,8 volte l’assegno sociale che oggi impediscono di accedere al pensionamento all’età prefissata; dalla modifica dell’attuale sistema di rivalutazione del montante accumulato, alla previdenza complementare in particolare, perché “oggi non può accedere al secondo pilastro chi ne avrebbe più bisogno: i giovani e chi è nel sistema contributivo”.

Questo vale per tutti coloro che hanno una componente contributiva rilevante nel loro paniere previdenziale, mentre per chi non riesce proprio a costruirsi una pensione, a causa di un percorso lavorativo fortemente caratterizzato da discontinuità, basse retribuzioni, bassi contributi, interruzioni per ragioni di cura e disoccupazione, bisogna affrontare la questione della pensione contributiva di garanzia. Per i giovani in particolare, il sindacato, spiega Ghiselli, auspica “un lavoro stabile e dignitoso, che consenta loro di costruirsi un futuro previdenziale adeguato” ma, a fronte della realtà attuale, bisogna comunque pensare a qualcosa che “sostenga chi si trova in questa condizione”. La soluzione non è una sorta di “pensione di cittadinanza”. L’idea della Cgil è invece quella di “intervenire a posteriori” con una integrazione della pensione sulla base della fiscalità generale a sostegno di coloro che da soli “non hanno potuto costruirsi una pensione dignitosa, non solo di sussistenza”, una pensione di garanzia, insomma, che però non sarebbe staccata dal percorso lavorativo delle persone. La condizione per ottenerla si basa infatti sulla condizione che la persona interessata sia stata attiva nel mercato del lavoro o che abbia svolto lavoro di cura o formazione. 

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Le proposte del NIdiL Cgil
“Posta la necessità di arrivare a una pensione contributiva di garanzia che permetta a tutti i lavoratori di poter maturare anche nel sistema contributivo trattamenti pensionistici dignitosi, ci sono alcuni interventi che possono essere fatti subito e avere effetti immediati sia sul reddito che sulla prospettiva previdenziale delle lavoratrici e dei lavoratori della Gestione separata Inps”. E’ questa la posizione del NIdiL, il sindacato dei lavoratori atipici della Cgil. Ecco come spiegano le loro proposte il segretario generale del NIdiL, Andrea Borghesi e il responsabile delle politiche previdenziali, Giuseppe Benincasa.

La gestione separata dell’Inps, ricordano i due sindacalisti, è storicamente in attivo di bilancio e offre ogni anno solidarietà alle gestioni più deficitarie dell'Inps. Tuttavia le istanze di tutela sono troppo spesso ignorate, nonostante siano poste da quella parte di lavoratori fra i più deboli del nostro mercato del lavoro. Sul versante dei collaboratori si può e si deve poter agire sin da subito in particolare su tre aspetti che possono determinare effetti anche sui futuri trattamenti pensionistici, ovvero la ripartizione dell'aliquota contributiva, l'estensione del principio dell'automaticità delle prestazioni, la previsione della contribuzione figurativa per i periodi di percezione dell'indennità di disoccupazione.

Rispetto all'aliquota, va parificato il costo a carico del collaboratore nella stessa misura prevista per il lavoratore dipendente. Oggi i collaboratori pagano l'11% a fronte del 9,19% dei dipendenti. Portare il carico contributivo in linea con quello del lavoro subordinato determinerebbe da subito un aumento del compenso netto dei lavoratori, ma soprattutto ricondurrebbe a equità una condizione che il mondo dei collaboratori ha subìto da quando si è traguardata la parità contributiva con il lavoro subordinato (2018).

Per i collaboratori poi il committente è come noto obbligato per legge a versare i contributi all'Inps. Nel caso in cui ciò non avvenga, l'accesso alle prestazioni sociali (fa eccezione la maternità) oltre che l'utilizzo di quei contributi per la futura pensione viene pregiudicato in quanto non esiste per il lavoro in collaborazione la cosiddetta automaticità delle prestazioni prevista invece per il lavoro dipendente; in base a questo principio, infatti, se il datore di lavoro non versa i contributi le prestazioni vengono comunque pagate e l'Inps si attiva per il loro recupero.  

Altra discriminazione riguarda la Dis-Coll, l'indennità di disoccupazione per questi lavoratori, per la quale non è prevista la copertura contributiva figurativa. Occorre sanare un'inaccettabile e incomprensibile differenziazione tra questi lavoratori e i lavoratori dipendenti per i quali è invece prevista tale copertura. Per questo aspetto peraltro riteniamo che, nell'ottica di una riforma degli ammortizzatori sociali, la Dis-Coll andrebbe sostituita dal sistema più tutelante della Naspi.

Sul versante dei professionisti della gestione separata infine, fra i quali ritroviamo spesso sacche più o meno ampie di lavoro povero,  l'attuale facoltà di rivalsa previdenziale del 4% va resa obbligatoria, e se possibile aumentata, essendo questa il più delle volte inesigibile da parte dei lavoratori più deboli che non sempre hanno la forza e il potere contrattuale necessario per ottenere la rivalsa. Ciò permetterebbe di ridurre il peso in capo al lavoratore con partita iva individuale gravandone una parte sul committente.

E della Filt Cgil
Anche per la Filt, il sindacato dei lavoratori dei trasporti della Cgil, il tema della pensione dei giovani e più in generale per tutte quelle figure professionali che hanno carriere discontinue basate su bassi salari, è all’ordine del giorno. “Ci sono lavoratori che con gli stipendi attuali (magari 800 euro al mese) e con una scarsa continuità come succede spesso ai rider non hanno la possibilità di costruirsi  i contributi sufficienti per arrivare alla pensione”, spiega Michele De Rose, segretario nazionale Filt Cgil. “Per noi – dice De Rose – valgono le proposte generali della Cgil nazionale e intanto il primo passo, la prima pietra che abbiamo voluto mettere riguarda il passaggio di questi lavoratori da un regime di lavoro autonomo al contratto di subordinazione. Va in questo senso il contratto che abbiamo firmato da poco con gli altri sindacati di categoria per l’assunzione di 4 mila rider”.

Divenuti lavoratori, i rider possono finalmente cominciare a costruire un loro percorso previdenziale con il versamento regolare dei contributi. Il problema però riguarda il fatto che molti avranno bisogno di un sostegno perché altrimenti faranno fatica a costruirsi il montante necessario per avere una pensione dignitosa. “L’altro aspetto della questione – spiega ancora De Rose – riguarda la previdenza complementare. Tutte le categorie del trasporto che rappresentiamo (autoferrotranvieri, lavoratori del trasporto aereo, ferrovieri, ecc.) hanno già da anni un loro fondo pensione, compresi i lavoratori del trasporto merci e logistica, che ormai sono circa un milione. Ora auspichiamo che anche i rider possano usufruire di questa tutela aggiuntiva per implementare la loro pensione”.