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Il Rapporto è il numero 21, lo commissiona l’Aiop, l’Associazione delle aziende ospedaliere e territoriali private, lo realizza il Censis, uno dei più autorevoli istituti di ricerca sociale del Paese. L’obiettivo è quello di monitorare lo stato di salute del sistema ospedaliero italiano, considerato nel suo complesso: pubblico, privato accreditato, privato privato, dando per acquisita la natura mista del sistema stesso. Gli esiti non sono affatto consolanti, anzi sono assai allarmanti. In ogni caso la domanda che sorge spontanea è: siamo davvero sicuri che dare per acquisita la natura mista del servizio sanitario nazionale sia davvero una buona notizia? E non sarebbe meglio e più coerente con la Costituzione potenziare la componente pubblica del sistema?
Salute per censo
Se sempre più sono i cittadini e le cittadine che rimandando o rinunciano a visite specialiste e indagini strumentali perché le liste di attesa del servizio sono tali da rendere lunghissime le attese, se sempre più sono quelli e quelle che – avendo un reddito medio - alto si rivolgono direttamente al privato senza nemmeno provare a chiedere un appuntamento al servizio sanitario, se ben il 42% dei redditi fino a 15 mila euro, il 32,6% dei redditi tra i 15 mila e i 30 mila euro, il 22,2% di quelli tra i 30 mila e i 50 mila euro e il 14,7% di quelli oltre i 50 mila euro sono stati costretti a rinviare o a rinunciare a prestazioni sanitarie, allora il problema esiste ed è grave. Inoltre il 36,9% degli italiani e ovviamente oltre il 50% dei redditi più bassi è costretto a rinviare altre spese per potersi curare.
Si cura chi può
“Ogni 100 tentativi di prenotazione nel servizio sanitario nazionale, le prestazioni che restano nella sanità pubblica (pubblico e privato accreditato) sono il 60,6%”. Il restante 40% o si rivolge al privato puro o non si cura. E i soldi spesi di tasca propria dalle famiglie sono tanti, secondo i dati Istat rielaborati dell’area Stato sociale e diritti della Cgil nazionale: “Nel 2022 i cittadini hanno speso 42 miliardi per curarsi. Si tratta di 37 miliardi di spesa che proviene direttamente dalle loro tasche e 5 miliardi dalla sanità integrativa. Particolarmente rilevante il peso per le famiglie, con un livello medio pro-capite di 624 euro e con enormi differenze territoriali”.
Liste di attesa infinite
Il nodo è sempre questo: ci si rivolge al privato perché il servizio pubblico non riesce a rispondere tempestivamente ai bisogni di salute. Dice il rapporto: “Il 53,5% degli italiani dichiara che, nel corso dell’anno, ha dovuto affrontare tempi di attesa eccessivamente lunghi rispetto alle tempistiche utili: il 37,4% segnala la presenza di liste bloccate o chiuse, nonostante siano formalmente vietate”. E se visite e indagini strumentali servono a monitorare patologie oncologiche o cardiache, il gioco del diritto alla salute negato è un fatto.
Ci si muove per non morire
Anche questo rapporto mette in evidenza un fenomeno recentemente menzionato anche da Meloni, la migrazione da una regione all’altra per riuscire a ottenere prestazioni sanitarie. Dicono Aiop e Censis: “Negli ultimi 12 mesi, il 16,3% delle persone che hanno avuto bisogno di rivolgersi ai servizi sanitari si è recato in un’altra regione, nell’ambito delle prestazioni erogate dal servizio sanitario”. E i costi sostenuti per questi “viaggi della speranza” non sono solo a carico del servizio sanitario. L’Agenas ha appena reso noto che negli ultimi sei anni la spesa per ricoveri in regione diversa da quella di appartenenza ammonta a circa 3 miliardi l’anno; a questi soldi vanno aggiungi quelli per visite e indagini fuori regione e quelli pagati dai cittadini e dalle cittadine per i trasferimenti, dalle spese di viaggio a quelli di permanenza in città diversa dalla propria.
La fiera delle diseguaglianze
Nel 1978 il servizio sanitario nazionale nasceva per garantire a tutti e tutte, a prescindere dal reddito e dall’area geografica di residenza, il diritto alla salute sancito dall’articolo 32 della Costituzione. Il servizio doveva essere pubblico e universale, fondato su prevenzione cura e riabilitazione. Visti i dati, oggi quella promessa è in parte tradita. Non solo perché chi a reddito basso non riuscendo ad accedere alle strutture pubbliche non riesce a curarsi, ma anche perché le differenze tra territorio e territorio sono notevoli e causa dei viaggi della salute. E sono gli stessi utenti dei servizi ad affermarlo, secondo lo studio: infatti il 47,7% dei cittadini e delle cittadine ha un’idea positiva del servizio sanitario regionale, ma solo il 29% degli abitanti del Sud e delle isole ne dà un giudizio favorevole. Qualora, malauguratamente, dovesse entrare in vigore l’autonomia differenziata di Calderoli cosa succederà?
Posti letto ospedalieri: pochi
I posti letto negli ospedali italiani sono pochi, meno di quanti dovrebbero essere per adeguarci alla media europea. In Italia sono 3,4 ogni mille abitanti, assai meno che in Germania o Francia; di questi, secondo il Rapporto Censis Aiop, il 69% sono in nosocomi pubblici, il 31% in quelli del privato accreditato. Ma, lamenta Aiop, la ripartizione della spesa non segue queste percentuali: “La spesa pubblica ospedaliera è destinata per l’87% alle strutture pubbliche e solo per il 13% alle strutture private accreditate”. Sarebbe bene ricordare, leggendo questi numeri, che i privati non forniscono tutte le prestazioni garantite dagli ospedali pubblici, a cominciare dai pronto soccorso.
La via da seguire
La strada non può essere che quella di restituire al servizio sanitario nazionale le risorse che mancano. Da tempo lo chiede la Cgil: “Occorre aumentare il finanziamento pubblico, oltre a quanto già previsto, di almeno 5 miliardi l’anno per i prossimi dieci anni per garantire il potenziamento dei necessari servizi di prevenzione, ospedalieri e territoriali al fine di garantire l’erogazione uniforme dei Lea, l’accesso equo alle innovazioni e il rilancio delle politiche del personale sanitario che è quello che sta soffrendo di più”.