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Quasi 40 anni passati nel reparto di neurologia di un grandissimo ospedale della Capitale. È andato in pensione, un po’ prima di quanto non avesse previsto, perché vittima della fatica da blocco del turn-over e quindi della carenza di personale.
Di storie da raccontare ne avrebbe tante davvero, episodi accaduti nel suo reparto o in pronto soccorso, storie che hanno - come è ovvio - suscitato riflessioni buone da spendersi per ragionare collettivamente su come affrontare una questione, quella delle aggressioni ai sanitari, vera quando era in servizio, più grave oggi.
E le ragioni dell’aggravamento è possibile sintetizzarle così: l’abbandono ormai totale dei principi che ispirarono la riforma del 1978 e la nascita del Servizio sanitario nazionale, la progressiva spoliazione del Ssn di risorse a cominciare da quelle umane, la conseguente privatizzazione della sanità.
Una storia tra tante
Il neurologo di un grande ospedale, così come il cardiologo o l’ortopedico e ogni altro specialista, quando è di guardia lo è per il proprio reparto, per tutti i reparti e per il pronto soccorso del nosocomio. Là dove c’è un’urgenza o un’emergenza di sua competenza viene chiamato e deve intervenire, lasciando il proprio reparto o incombenze meno urgenti ma sempre di cura di pazienti.
Un pomeriggio il dottor Libero Francesconi (nome di fantasia, ma la storia è vera) era, appunto, il neurologo di guardia. Dalla terapia intensiva del suo dipartimento lo avvisarono che avrebbero di lì a poco trasferito nel reparto di Neurologia un paziente ormai stabilizzato ma in condizioni - purtroppo – terminali, per liberare uno dei rari posti disponibili per un altro paziente inviato dal pronto soccorso.
Dove nasce la violenza
Francesconi accoglie il paziente in reparto, si rende conto della gravità della situazione e dell’impossibilità di intervenire per cambiare l’esito della vicenda. Viene chiamato in pronto soccorso per un’urgenza, al suo ritorno trova al capezzale del ragazzo il rianimatore che nel frattempo era stato chiamato dagli infermieri, ma che nulla aveva potuto fare. Francesconi va quindi a parlare con i parenti del ragazzo e si trova a fronteggiare un comportamento estremamente aggressivo e violento da parte di un folto gruppo di familiari, che con grande fatica cerca di calmare, tanto che dovettero intervenire le forze dell’ordine.
Le cause dell’aggressività
“Questo non è altro che uno dei tanti esempi di deficit e frettolosità di comunicazione tra struttura e familiari”, afferma il sanitario: “Io avevo dato per scontato che loro avessero compreso l’ineluttabilità della situazione, loro erano convinti che avrei potuto salvarlo”. Il dottor Francesconi aggiunge: “Se si mettono a contatto due entità, da un lato la struttura sanitaria che è rigida e scandita da priorità diverse da quelle del singolo paziente o dei suoi familiari, e un gruppo di persone emotivamente provate e angosciate, senza alcun mediazione, è quasi inevitabile il conflitto”.
Alzare lo sguardo
Nel ragionare su un fenomeno che oggi pare diventato incontenibile e a cui il governo pensa di dare una risposta di tipo securitario, come se poliziotti e arresti fossero la soluzione di un problema che non è di ordine pubblico, Libero Francesconi sostiene che, invece, andrebbero affrontate le cause strutturali e antiche di un problema che attiene il ruolo e l’organizzazione della sanità. E allora i corni del problema, a suo dire – sono due: la sanità territoriale che non c’è, e il mancato diaframma tra struttura ospedaliera (soprattutto il pronto soccorso), pazienti e gruppo familiare che li accompagna.
La mancanza del territorio
“Una delle ragioni del contrasto nasce dalla carenza della cosiddetta medicina del territorio – ci dice - che non è solo cura delle malattie, ma è anche relazione con le persone, presa in carico, prevenzione. Tutto questo oggi non esiste, e nasce da una mancata attuazione e dal tradimento della riforma sanitaria degli anni Settanta. Inevitabilmente, allora, l'ospedale viene visto come l'unica forma di cura e di presa in carico. Ovviamente tutto ciò è improprio, ma la responsabilità non è dei cittadini e delle cittadine, ma di un sistema che oltre all’ospedale non offre praticamente nulla, se non una medicina privata, costosa e non per tutti”.
Il tutto e niente dell’ospedale
È evidente che se si deve ricorrere al pronto soccorso per quattro punti di sutura di una ferita, o per poter fare una tac o una radiografia che altrimenti, viste le lunghissime liste di attesa e i costi elevati del privato, non si riesce a fare in altro modo che andando in ospedale, inevitabilmente la pressione su queste strutture diventa insopportabile, tanto più vista la carenza di personale. E l’occuparsi di chi è davvero grave fa lasciare indietro chi grave non è.
Un’ulteriore e diversa frattura
Quando arriva in pronto soccorso un paziente grave, inevitabilmente si crea una sorta di conflitto fra la struttura che deve fronteggiare una situazione di emergenza e i familiari che sono preoccupati ed emotivamente provati. “Sarebbe utile una struttura - afferma il medico – in grado di frapporsi tra i due gruppi e decomprimere le criticità. Il nucleo familiare è pronto a esplodere, è preoccupato, terrorizzato: ci deve essere qualcuno che abbia la capacità di accoglierlo e dirgli la verità, però, anche di tranquillizzarlo. Il personale sanitario deve intervenire sul paziente, ma non si può lasciare chi è angosciato nel vuoto assoluto”.
Comunicazione ed empatia
Occorre saper accogliere, parlare e gestire il dolore. Servirebbe, secondo il nostro interlocutore, una formazione continua del personale sanitario che comunque deve interloquire con i malati e con i suoi cari. Oggi, invece, tutto è lasciato alla capacità del singolo operatore senza considerare che medici, infermieri e operatori socio sanitari sono a loro volta uomini e donne che devono fronteggiare anche la possibilità che i loro interventi non riescano a salvare vite. E sono, al tempo stesso, vittime di un sistema carente di personale e di organizzazione.
La conclusione è politica
Libero Francesconi ha fatto e fa il medico per passione e forse anche per impegno sociale. Conclude la sua storia con una riflessione netta: “Occorre costruire e ricostruire la medicina territoriale, implementandola con strutture socio-sanitarie intermedie tra territorio e ospedali. La valutazione della funzionalità del sistema sanitario, in Italia e ovunque, è riferita essenzialmente alla copertura universalistica del sistema sanitario, il che vuol dire una possibilità di accesso alla prevenzione delle malattie, e alle cure delle stesse per tutti i cittadini e le cittadine indipendentemente dalla loro condizione socio-economica. È esattamente quello che era alla base della riforma del 1978 e che oggi il Ssn non è in grado di fare”.