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“Ci serve una reazione forte e compatta, perché ci stanno portando via il nostro lavoro”. La voce è stanca, ma ferma, determinata. Daniele Pelà, rsu Fiom Cgil alla Sematic di Osio Sotto, in provincia di Bergamo, è appena uscito da un’assemblea di lotta. Oggi sarà in sciopero. La posta in palio è la sopravvivenza di un’azienda che dà lavoro a quasi 300 persone sul territorio. La Ferrari degli ascensori, fondata nel 1959 e presto diventata fiore all’occhiello del manifatturiero, oggi, dopo il passaggio intermedio a un fondo di investimenti inglese, ha smesso la veste di fabbrica padronale per essere ingoiata dal suo acerrimo concorrente, l’altro marchio all’avanguardia nel settore, il gruppo Wittur, multinazionale tedesca con lo sguardo rivolto all’Est Europa.
Pelà è un operaio magazziniere di 36 anni che vive proprio a Osio. Entrato giovanissimo, nel 2003, dopo un’esperienza di tre anni e mezzo in torneria. Altri tempi. “Nei primissimi anni 2000 facevano ancora certi contratti. A me è bastato un periodo brevissimo di prova per ritrovarmi dipendente con tredicesima e quattordicesima. Erano anni in cui il sindacato cresceva, prima siamo riusciti ad ottenere la mensa, poi il premio di produzione. L’azienda era della famiglia, sapevi con chi parlare e il lavoro non mancava, tanto che nel 2007 hanno ripreso ad assumere e quando il padre ha lasciato la gestione ai suoi tre figli la ditta ha vissuto una nuova fase di sviluppo”.
Difficile pensare che quello sarebbe stato l’inizio della fine.
“I vertici della Wittur, all’inizio, nel 2015, ci hanno detto di non preoccuparci ed effettivamente noi abbiamo continuato a sviluppare i nostri prodotti. Nel corso degli anni, però, era evidente che il focus degli investimenti si stesse spostando sempre più verso est, verso l’Ungheria”. Il primo affondo verso la delocalizzazione c’è stato l’anno scorso ad aprile. “Han provato ad affondare il colpo, noi abbiamo resistito, abbiamo scioperato, abbiamo ottenuto una nuova commessa e l’abbiamo superata. Quella è stata la prima vera avvisaglia. Qualcuno si è guardato in giro, qui lavorano molte coppie, marito e moglie. Una delocalizzazione li avrebbe lasciati senza lavoro entrambi. Così chi ha potuto si è trovato un altro lavoro. Questo, tuttavia, non ha portato a un rimpiazzo da parte dei vertici aziendali, ma a uno spostamento di produzioni in Ungheria. Al punto che, nonostante le nostre proteste di delegati, all’ufficio tecnico sono rimasti in due: centinaia di operai in produzione dipendevano da due persone. Per qualsiasi variazione tecnica del progetto. Con tutti i rischi di rallentamento che questo comporta”.
Il resto è cronaca di queste ore. La piattaforma del rinnovo del contratto aziendale, l’incontro il 3 settembre e l’annuncio, in quella sede, da parte dei vertici, che il 70 per cento della produzione dello stabilimento di Osio sarebbe stato spostato in Ungheria. “Ci hanno detto che avremmo discusso a breve la cassa integrazione per covid e che ci avrebbero messo in cassa fino al 31 dicembre, non a zero ore. Per dire, ci hanno dato la lista per la prossima settimana: metà di noi sarà al lavoro, l’altra metà in cig. E così andrà fino al 31 dicembre”.
“Un atteggiamento meschino, una logica assurda. L’azienda è sana, ha guadagnato 7 milioni di euro puliti, non è in perdita, le commesse ci sono. A metà marzo, quando è scoppiata la pandemia, dopo che metà dei dipendenti è rimasta a casa per paura o perché malata, in seguito alle azioni messe in campo dal governo, siamo stati chiusi per un mese. E in quel mese in Ungheria, nel frattempo, hanno fatto le prove per vedere se ce la facevano a reggere i nostri volumi”.
Tutto va bene, anche la pandemia, per capire come incrementare i guadagni. E tra non molto, se il tavolo al ministero dello Sviluppo economico non darà i suoi frutti e l’azienda sarà irremovibile, il grosso della produzione si trasferirà a Nyiregyhaza, dove lo stipendio di un operaio con le stesse qualifiche non arriva neanche alla metà dei 1450 euro della busta paga di Daniele Pelà.
E sul margine del profitto si infrange il sogno della ripresa, persino nel territorio martire del covid.