PHOTO
Dal 1 luglio le giocatrici di calcio di serie A saranno professioniste, lavoratrici a tutto tondo con salario diritti e tutele. La fine di una discriminazione. Susanna Camusso, responsabile politiche di genere della Cgil, ricorda il percorso compiuto e i traguardi da tagliare. Per le sportive e per tutte le lavoratrici.
Il calcio femminile di serie A è entrato nel mondo del professionismo, finalmente le giocatrici sono riconosciute come lavoratrici dello sport, così come i loro colleghi uomini. Un bel risultato.
Sì, un risultato davvero importante perché era una discriminazione così evidente, ma nello stesso tempo così ignorata che faceva un po’ impressione. Quando nel 2016 incontrammo per la prima volta le calciatrici della nazionale femminile rimanemmo colpite fortemente. Ci fecero dei racconti terribili, quelle che lavoravano non avevano i permessi per gli allenamenti e rinunciando al lavoro non ricevevano nessun compenso e non avevano nessuna tutela, non erano in grado di sostenersi. Erano sempre in difficoltà ma tutto questo non veniva riconosciuto, nonostante da tempo il tema venisse sul sollevato, le loro rivendicazioni ci fossero. Questo primo provvedimento mette fine ad una grande discriminazione. È iniziato – solo iniziato - un percorso di parità, ora tocca alle altre federazioni.
Le donne vanno alle Olimpiadi, vincono medaglie, in realtà quasi sono più brave degli uomini, hanno più riconoscimenti degli atleti maschi, eppure continuano ad essere considerate atlete di serie B
Non solo continuano a essere considerate di serie B, ma sono messe nelle condizioni anche di avere meno possibilità di esercitare lo sport, di poter far valere le loro capacità. Le due cose si tengono insieme, cioè se non si hanno gli spazi, i luoghi, la possibilità di allenarsi, se non si ha la possibilità di fare trasferte, tutto questo diventa un impedimento a dimostrare le proprie capacità. E per molte federazioni sportive le donne continuano a essere solo dilettanti. Così come abbiamo scoperto che i campionati prevedono premi differenti per uomini e donne e naturalmente quelli delle donne sono inferiori. Insomma, ci sono proprio delle discriminazioni sistematiche che nulla hanno a che fare con la capacità. Certo maschi e femmine hanno prestazioni diverse perché differenti sono le caratteristiche fisiche, ma questo non è merito o demerito di nessuno, sono condizioni di partenza, non un risultato del proprio sforzo.
Quello che tu descrivi è una discriminazione, perlomeno per quanto riguarda il salario, chiamiamolo così, che è ordine del giorno del mondo del lavoro extra sportivo.
Certo, nel mondo sportivo, soprattutto delle società e delle federazioni, era una discriminazione palese giocata fin dall'origine: l’impossibile accedere al professionismo. Nel mondo del lavoro più ordinario non viene giocata dall'origine ma viene praticata ad ogni livello. Anche se, come dire, la normativa, la legge, la contrattazione, cioè tutto intorno, dice che non dovrebbe essere così, eppure nei fatti viene esercitata nello stesso modo, tant'è che possiamo vantare un risultato migliore di presenza femminile nei consigli d'amministrazione delle società, ma solo perché c'è una legge che prevede l'obbligo di una quota di donne.
Infatti, secondo l'ultimo rapporto Bes appena presentato dall'Istat, le donne continuano ad essere discriminate non solo nel mondo del lavoro. E con la pandemia la loro condizione è peggiorata, hanno perso più occupazione, quelle con figli sono meno occupate ancora delle altre, la partecipazione delle donne alla politica è ancora molto lontana dall'essere paritaria e, appunto, l'unico luogo dove si raggiunge una sorta di parità è nei consigli di amministrazione. Cosa ci dice tutto questo?
Ci dice esplicitamente che al di là di tutte le dichiarazioni che nelle occasioni topiche vengono fatte da tutti, in realtà siamo di fronte alla dimostrazione che c'è un conflitto, un conflitto di poteri e di riconoscimento e che bisogna trovare gli strumenti - le quote sono uno di questi - per cambiare il campo di gioco. Se non si cambia il campo di gioco, c’è la discriminazione.
Torniamo allo sport e da dove siamo partite, come facciamo per aiutare le sportive delle altre federazioni ad avere lo stesso giusto riconoscimento, quello del professionismo, che hanno avuto le donne del calcio?
Per ragioni che io personalmente trovo un po’ oscure, il fatto che l'abbia iniziato il calcio a riconoscere il professionismo delle donne è una cosa importante perché è la Federazione più visibile. In ogni caso occorre giustamente valorizzare questo primo risultato, me usarlo come dimostrazione che si può e si deve fare. E’ poi importante sottolineare che le calciatrici si sono organizzate. Non dimentico che il nostro incontro con loro, con quelle della nazionale e quelle delle altre squadre, nacque in occasione dello sciopero delle calciatrici. Si sono organizzate e si sono rese visibili. La notizia del loro sciopero colpì molto anche perché nessuno poteva liquidarla come una cosa corporativa di chi aveva chissà quali privilegi. No, perché eravamo di fronte a una discriminazione così evidente che era complicato trovare degli argomenti per sostenerla.
La ricetta alla fine sempre la stessa, bisogna organizzarsi collettivamente e lottare per affermare propri di propri diritti. Da allora si è creato un movimento, che certo con difficoltà, ma porta avanti il proprio percorso di rivendicazioni. Certo se il ministero dello Sport, se la sottosegretaria Vezzali, prendessero posizione potrebbe essere molto utile.
È servito l'incontro con la Cgil?
Secondo me sì, intanto perché in quel momento abbiamo dato loro voce e abbiamo reso evidente che avevamo di fronte delle “lavoratrici”. Si stava parlando, cioè, di diritti e di condizioni di lavoratrici, e quindi avere la Cgil come interlocutore ha aiutato ad affrontare il tema per quello che è. E credo che sia stata importante perché trovare solidarietà nell'organizzazione dei lavoratori penso rappresenti per le altre lavoratrici un incontro importante, non mi piace usare la parola esempio, ma insomma trovare un luogo dove esperienze sono state fatte e quindi c'è comunque uno scambio, uno scambio utile per uscire dai loro confini.