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In Italia più della metà dei contratti è scaduto e oltre 7.100.000 di lavoratori del settore privato aspettano il rinnovo, a volte anche da molti anni. L’obiettivo per loro è recuperare il potere di acquisto delle retribuzioni, eroso dall’inflazione e dal caro prezzi. I dati arrivano dall’ultimo report della Cgil, che con i contratti firmati insieme a Cisl e Uil copre più del 97 per cento dei lavoratori censiti (dati Uniemens).
Oltre dieci anni
Il caso più eclatante è quello degli undici accordi in attesa da oltre dieci anni, che riguardano comunque un numero limitato di persone: 19.475, secondo l’osservatorio sulla contrattazione della Cgil, molte delle quali appartenenti al contratto del cinema, tecnici e maestranze.
Accordi pre-crisi
Poi ci sono i contratti scaduti tra il 2014 e il 2019, ben 30, pari al 16 per cento, che interessano una marea di lavoratori, 3.778.096 per la precisione, del terziario, servizi, distribuzione. Dentro c’è di tutto, ma soprattutto gli occupati del commercio (Confcommercio), più di due milioni di addetti che hanno operato in prima linea durante il Covid, i cui salari sono fermi a prima della pandemia, del lockdown e dello scoppio delle due guerre, in Ucraina e in Medio Oriente.
“Va precisato che i sindacati Filcams, Fisascat e Uiltucs a fine 2022 hanno siglato accordi che prevedevano una una tantum in aggiunta ai minimi contrattuali – afferma Nicoletta Brachini, area contrattazione e mercato del lavoro Cgil nazionale –. Questo però non ha risolto la situazione, i salari non hanno certo recuperato l’inflazione”.
Tra le intese scadute nel 2014-2019 ci sono anche quelle del turismo, in attesa dal 2016, dell’industria turistica dal 2018, della distribuzione e servizi (Confesercenti) dal 2017, degli studi professionali e sanità (personale non medico area privata) dal 2018, del settore istituzioni e servizi socio-assistenziali dal 2019. Tutti lavoratori i cui salari sono bloccati da anni, senza alcun sistema di indicizzazione.
Ultimi quattro anni
Veniamo ad anni più recenti. Dal 2020 al 2023 sono scaduti 69 contratti per oltre 3.310.000 lavoratori: pubblici esercizi, turismo, ristorazione collettiva e commerciale, telecomunicazoni, somministrazione lavoro e, nel comparto artigiano, meccanica, orafi argentieri, odontotecnici, estetica e parrucchieri, tessile, legno e lapidei, panificazione. Da queste cifre andrebbero sottratte le 29 intese appena scadute (dicembre 2023), quasi 889 mila lavoratori per i quali potrebbero essere aperte trattative.
Grandi differenze
In questo quadro desolante, le differenze tra settori sono grandi e rendono evidente lo stretto legame tra rinnovi e tenuta delle retribuzioni. “Ci sono contratti come quello dell’industria, che hanno tenuto meglio l’inflazione – riprende Brachini –. I contratti dei chimici e dei metalmeccanici sono stati rinnovati in coincidenza con le scadenze e in alcuni casi sono stati inseriti meccanismi di indicizzazione automatica che garantiscono aumenti salariali in linea con l’inflazione. Lo stesso vale per il legno-arredo e per il lavoro domestico”.
Assorbire l’inflazione
Dall’altra parte ci sono rinnovi che non sono riusciti a riassorbire l’inflazione, settori che arrancavano anche prima. Come per esempio il contratto della vigilanza privata: rinnovato questa estate dopo una decina d’anni, non è riuscito a recuperare tutto l’arretrato. In ogni caso, anche nelle situazioni più virtuose, dei contratti collettivi che attualmente risultano in vigore, il periodo medio di vacanza contrattuale è pari a 25 mesi, oltre due anni.
Settore pubblico
Non va meglio nel settore pubblico, dove tutti i contratti sottoscritti da Aran, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, di durata triennale, sono scaduti: funzioni centrali, funzioni locali, sanità, istruzione e ricerca, comparto autonomo o fuori comparto (Presidenza del consiglio, Unioncamere, ecc.), personale in regime di diritto pubblico (polizia, forze armate, vigili del fuoco, ecc.), per 3.243.499 lavoratori. Gli accordi che sono stati rinnovati nel 2022, di fatto sono ex post, cioè adeguano le retribuzioni per gli anni precedenti, dal 2019 al 2021.
“Anche se il panorama è molto vario, per tutti vale lo stesso principio – conclude Brachini –. Se la contrattazione è regolare e si rinnova con le giuste cadenze, il potere d’acquisto regge, si adegua anche la parte normativa e l’aumento dei minimi è in linea con la situazione economica del Paese. In tutti gli altri casi, i salari e i lavoratori arrancano”.