PHOTO
È passato poco più di un anno da quando ai 318 lavoratori della Bekaert di Figline Valdarno è stata comunicata la notizia della chiusura dello stabilimento, che avrebbe cessato la produzione entro 75 giorni dalla spedizione della raccomandata, arrivata direttamente nelle case degli operai, con la quale si informava della decisione presa dall’azienda. “È stata avviata – vi si leggeva – la procedura di licenziamento collettivo, riguardante tutti i dipendenti della Società”. È così che per la proprietà belga dell’ex Pirelli doveva chiudersi il sipario su una fabbrica attiva da 50 anni nel territorio, che aveva dato lavoro a tanti abitanti del Valdarno: quello che si considerava un buon lavoro, un lavoro sicuro. Alla vigilia dell’incontro al Ministero dello Sviluppo Economico abbiamo ascoltato alcuni degli operai in cassa integrazione dall’inizio dell’anno, le loro esperienze e le loro speranze per il futuro dell’azienda.
Filippo Pesci
Lavoro alla Bekaert dal 1992, sono entrato come operaio e poi sono passato in manutenzione. Dopo 27 anni di lavoro si finisce per sentire l'azienda un po' nostra e si vive il licenziamento come la perdita di un pezzo di casa. Con la perdita del lavoro sparisce qualcosa di più, qualcosa di tuo. In questo momento stiamo cercando di mettere insieme tutti i pezzi, viviamo come se fossimo appesi a un filo, in attesa: qualcuno sta decidendo per noi il nostro futuro e noi ci sentiamo in una bolla di ansia e insoddisfazione. Perché, si sa, noi abbiamo chiuso perché ci hanno voluto far chiudere, il lavoro c'era, le commesse le avevamo, ma il dumping salariale con l'Europa per noi è stato drammatico e ci ha portato a questo punto.
Noi vorremmo trovare una sistemazione per tutti i dipendenti della Bekaert: dei 381 ne sono rimasti 230, e 230 devono essere, non uno di meno, perché ognuno di loro ha una famiglia, come ce l'ho io, dei ragazzi da portare avanti, come me, ha una storia all'interno della fabbrica, ha un futuro, ha dei sogni, delle speranze, e solo il lavoro gli permette di portare avanti tutte queste cose.
Questo è il sentimento con cui abbiamo portato avanti la vertenza, senza lasciare nessuno indietro, in una condizione di parità: un lavoratore è un lavoratore, a qualsiasi sigla sindacale appartenga ha lo stesso valore dei suoi compagni.
Siamo persone alle quali, nello stesso momento, è stato tolto il lavoro, abbiamo tutti la stessa dignità e siamo in una condizione di parità di fronte a questa vertenza. L'idea della cooperativa era proprio questa, fare qualcosa che potesse coinvolgere tutti e porteremo avanti questo progetto collettivo. Se poi invece finirà tutto nelle mani di un industriale, gli rivolgeremo la nostra unica richiesta: garantire l’occupazione per queste 230 persone.
Daniele Righi
Ho iniziato a lavorare alla Pirelli – poi Bekaert – nel 1992. Sono un operaio, questo lavoro è stato la fonte di sostentamento della mia vita e sapere che lo stavo perdendo è stato un dramma. Ma ci siamo rimboccati le maniche e siamo andati avanti, abbiamo ottenuto la cassa integrazione e il confronto tra le parti continua.
Non è stato facile, perché siamo rimasti qui, a vedere se sarà possibile ripartire, non abbiamo cercato un altro lavoro e ci siamo accontentati di una cassa integrazione che arriva a singhiozzo, con pause di mesi. Però una cosa positiva c’è stata, abbiamo conosciuto meglio le persone con cui lavoravamo, perché prima l’organizzazione del lavoro e il nostro ruolo non ci consentivano grossi scambi, ci vedevamo quando marcavamo all’ingresso e alla fine del turno. Invece in questo periodo abbiamo potuto conoscere i familiari dei nostri compagni di lavoro, conoscere meglio le loro vite, i loro problemi, e tutto questo ha dato un po’ di umanità al nostro lavoro, che di umanità negli ultimi anni ne aveva ben poca. È stato questo il motore che ci ha tenuto in pista fino a oggi, insieme al sostegno della segreteria della Fiom, che ci ha ridato forza e coraggio nei momenti in cui rischiavamo di mollare.
Davide Vannini
Lavoro alla Bekaert dal 2003. Ho sempre fatto questo lavoro e per me era importante questo posto in una fabbrica che credevo solida, avendo due bambini e una moglie che non lavora stabilmente, ma anche perché il FAI, il Fondo assistenziale interno, mi è stato di aiuto in un periodo di salute precaria e mi ha permesso di affrontare le spese che ha comportato.
Dall’inizio dell’anno viviamo in questa specie di limbo, non sappiamo la sorte che ci toccherà ed è difficile vivere in questa maniera, portando tutti i problemi a casa: prima i problemi del lavoro restavano confinati nelle otto ore in fabbrica, adesso ci seguono, li portiamo con noi. Il nostro, in produzione, è un lavoro duro. Come ambiente, perché d’estate è molto caldo, si raggiungono picchi di 45, 46 gradi, con pochissima aria, e duro anche come carichi di lavoro, che negli ultimi anni erano parecchio aumentati. Facevamo turni, notti e domeniche comprese, lo spazio per la famiglia era quello che era: insomma, non era proprio ‘un boccone da ghiotti’, come si dice, ma lo stipendio era abbastanza buono.
Fino a qualche anno fa questa azienda ha dato lavoro a gran parte di Figline e anche di altri comuni del Valdarno. Entrare alla Pirelli, prima che diventasse Bekaert, era una cosa importante, rappresentava la garanzia di una certa sicurezza. Non vorremmo che questo punto di riferimento andasse perduto.
Anche per questo speriamo di riaprire, di salvare i posti di lavoro, in una prospettiva di reindustrializzazione che permetta di mantenere i livelli occupazionali del territorio: altri 230 posti di lavoro in meno in un panorama valdarnese già abbastanza depresso sono tanti, sono una bomba sociale. Anche se qualcuno potrà ricollocarsi altrove questi posti qui non ci saranno più, saranno perduti per sempre.
Lorenzo Raspini
Sono entrato in questa fabbrica nell’89, ero un ragazzino, avevo 20 anni. In questa vallata tutte le famiglie hanno avuto almeno un parente che ha lavorato alla Pirelli, poi Bekaert, partendo da San Giovanni e arrivando fino a Rignano. In 30 anni in questa fabbrica ho conosciuto tutti: quelli che c’erano da prima del mio arrivo e poi sono andati in pensione, e che ancora mi salutano quando li incontro fuori, quelli con cui ho condiviso i turni di notte, quelli delle feste passate insieme in produzione. C’era il compagno di lavoro che era sempre accanto a me quando mi cambiavo nello spogliatoio e c’era quello che lavorava sempre accanto a me alle macchine. Io ho sempre fatto l’operaio, sono sempre stato l’ultima ruota del carro, ma resto attaccato a questo posto, non ho ancora cercato un lavoro fuori, perché voglio far ripartire questo stabilimento.
E la mia speranza è che possa essere una ripartenza innovativa, che permetta non soltanto di mantenere i nostri posti di lavoro ma di dare anche un futuro ai nostri figli: vorrei che fosse possibile trovare qualcuno in grado di fare un piano di reindustrializzazione di questa grande struttura e di rilanciare la produzione. Perché si può ripartire con i macchinari che ci sono in questa fabbrica e proseguire con la produzione dei filotubi, ma sarebbe bello aggiungere qualcosa, dedicare una parte di questo grande spazio a qualcosa di nuovo: creare lavoro, creare un futuro.
Paolo Cellai
Sarebbe stato il mio ventisettesimo anno qui in Pirelli, poi Bekaert, che il 22 giugno dell’anno scorso ha chiuso questo stabilimento per spostare la produzione in Romania, dove costa meno. È così che 318 operai – io le chiamo famiglie – si sono ritrovati in una situazione disperante.
Ed è così che abbiamo cominciato questa lotta, che dura da un anno, e che speriamo possa andare a buon fine. Sono venute tante persone a sostenerci, abbiamo avuto tanta solidarietà, ma vorremmo qualcosa di concreto prima della fine dell’anno, prima della scadenza della cassa integrazione.
È dura stare a casa senza lavorare, cominciare a dire no alle richieste dei figli. Ci hanno levato la dignità, la dignità del lavoro, che è un valore importante. Mi trovo in difficoltà anche come genitore, in questa situazione, a spiegare i valori che contano a mia figlia, prepararla al suo futuro ingresso nel mondo del lavoro.
Quando c’è stato il cambio di proprietà siamo passati da una situazione incerta, in cui non sapevamo cosa ci aspettava, alla promessa – con Bekaert – di prospettive migliori. Ma abbiamo capito presto che le prospettive erano ancora più incerte di prima: quando un’azienda non vuole investire è chiaro che è difficile andare a migliorare. Ma, nonostante le avvisaglie, i campanelli di allarme, quando ci hanno chiuso è stata lo stesso una bella botta. Ci hanno proprio trattati male, molto male.
Massimo Zorgiani
Sono stato in questa azienda per 17 anni, quando sono entrato non ne avevo ancora 20. Ora mi ritrovo, a 39 anni, ad essere trattato come una bestia. Dirci di punto in bianco che la fabbrica sarebbe stata chiusa nell’arco di 75 giorni è stata proprio una vigliaccata.
Negli anni precedenti ci hanno fatto credere che lavorando anche il settimo giorno potevamo riuscire ad andare avanti, invece era soltanto una mossa per arrivare a una chiusura. Adesso lo vediamo chiaramente.
La cosa che fa più male - oltre al modo in cui ci hanno fatto lavorare negli ultimi due anni, a ciclo continuo, e come se il mancato raggiungimento degli obiettivi di produzione fosse imputabile agli operai - è che la fabbrica non sia stata chiusa perché non andava bene, ma solo per delocalizzare la produzione in Romania. Ci ha feriti, dal punto di vista umano, perché alla fine ci hanno lasciati a casa perché un lavoratore romeno costa meno di uno italiano, non perché qui non si sapesse lavorare, anzi, era una fabbrica che aveva un livello qualitativo piuttosto buono. Ma alla proprietà questo non interessava, l’unica cosa importante per loro era il profitto.
Anche mio padre ha lavorato in questa fabbrica, lui è andato in pensione e sono entrato io: si può dire che la mia famiglia ha vissuto grazie a questa fabbrica, potete immaginare quanto mi abbia fatto male vederla in queste condizioni. Anche per questo non l’ho lasciata e ho deciso di fare questa lotta insieme ai ragazzi della Fiom, per rivedere questo stabilimento in piedi, aperto. Voglio ancora credere che sia possibile la strada della reindustrializzazione e che possa portare non solo al mantenimento dei nostri posti di lavoro, ma anche a un futuro occupazionale per le nuove generazioni.