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Dal bottone al cappotto, dalla cintura alla borsa. Dalla suola alla scarpa, dal tessuto al vestito. Quando si parla di moda si parla di questo e di molto altro. Creatività, professionalità, artigianato di qualità, storia e tradizione, innovazione e sperimentazione, cultura. Sì anche cultura, perché la moda italiana è riconosciuta e apprezzata anche come tratto identitario e quindi culturale del nostro Paese.
Dietro tutto questo c’è il lavoro di centinaia di migliaia di uomini e soprattutto donne. Sono 580mila, oltre il 14% degli addetti manifatturieri italiani, impiegati in quasi 66 mila aziende di tutte le dimensioni. A loro vanno aggiunti, poi quanti lavorano nell’indotto, dalla logistica al commercio. Stiamo, insomma parlando di uno di quei settori che incidono in maniera significativa sulla ricchezza dell’Italia, che determina una quota consistente del Pil del Paese. Qualche numero ancora per meglio capire? Il fatturato globale del settore è di quasi 96 miliardi di euro. Di questi il 66,1% sono dovuti alle esportazioni (65,9 miliardi), con un saldo positivo della bilancia commerciale di oltre 30 miliardi di euro. Ancora nel 2019 le esportazioni si sono rafforzate, con un incremento significativo del 3,9%.
Ma il settore è malato, malato a causa del coronavirus e del conseguente lockdown, lo è per le sue caratteristiche specifiche, grandi aziende affiancate da una miriade di piccole e medie. La parcellizzazione del ciclo produttivo e la specializzazione rendono questo settore emblema del cosiddetto “modello filiera”. Ma proprio per questo modo di essere organizzati rischia una diffusione della crisi a raggera, per cerchi concentrici. Insomma la sospensione delle attività per oltre due mesi non ha fatto perdere solo il fatturato di due mesi di lavoro, ma ha compromesso di fatto l’intera stagione (primavera/estate per le vendite, autunno/inverno per lo stile e la produzione). Inoltre, tenuto conto dell’anticipo con cui operano le imprese nella preparazione delle collezioni e delle campagne di vendita future e considerato che sono di fatto state annullate tutte le manifestazioni fieristiche programmate per il quest'anno, le stime prevedono ripercussioni pesanti non solo sulle attività del 2020, ma anche sulle stagioni del 2021, immaginando un ritorno alla normalità solo dal 2022. Nelle settimane passate Collettiva aveva raccontato le storie di alcune lavoratrici che meglio di altro descrivono quanto la freddezza dei numeri fatica a trasmettere.
Crisi sì, ma certo non rassegnazione. Tra lavoratori e lavoratrici, tra le imprese. Ed allora Filctem Cgil, Femca Cils, Uiltec Uil e Confindustria moda si sono messe attorno a un tavolo a ragionare su cosa occorra per far ripartire aziende e lavoro. Alla fine del confronto hanno preso carta e penna, stilato un documento di analisi e proposte che firmato hanno inviato al presidente del Consiglio e ai ministri interessati. E se l’analisi è chiara lo proposte lo sono altrettanto. Innanzitutto occorre favorire la crescita delle imprese più piccole agevolando e sostenendo tutto quello che sia in grado di innescare il salto dimensionale: fusioni societarie, accordi di rete, consorzi di impresa.
Poi è arrivato il momento di fare viaggi di ritorno, negli anni passati troppe produzioni o parti di esse sono state delocalizzate là dove il costo del lavoro e delle infrastrutture era inferiore, è arrivato il momento di favorire il “ritorno a casa”, almeno per le produzioni di alta gamma, il Made in iIaly deve essere tale. I firmatari del documento propongono vengano predisposti “incentivi da riservare alle nuove iniziative di impresa in Italia finalizzati al rientro di fasi di lavorazioni soprattutto se comportano la creazione di nuovi posti di lavoro nel nostro Paese. Le iniziative di reshoring potrebbero essere agevolate agendo sia sugli oneri fiscali e contributivi, che tramite riduzioni del carico fiscale sulle forniture energetiche. Per evitare forme di concorrenza sleale o iniziative opportunistiche, le medesime forme di incentivazione dovrebbero essere concesse anche alle nuove iniziative imprenditoriali che saranno assunte sul territorio nazionale da imprese italiane, che in passato non hanno abbiano delocalizzato le produzioni all’estero”.
Quello della moda, lo sappiamo, è uno dei settori dove purtroppo sono diffusi fenomeni di dumping contrattuale, concorrenza sleale, produzioni illegali. Filctem, Femca, Uiltec e Confindustria Moda, ribadiscono la necessità di completare il processo di certificazione della rappresentanza, per sostenere anche attraverso un quadro normativo coerente l’applicazione generalizzata del contratto nazionale di lavoro sottoscritto dalle organizzazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative; di applicare strumenti contrattuali concordati tra le parti per l’agevolazione dei ccnl; di implementare un efficace sistema di controllo pubblico. Non solo, le parti si impegnano ad affrontare tutte questioni in sede di rinnovo dei contratti. Impegno importante di questi tempi.
Lo dicevamo, una parte consistente di queste produzioni sono il cuore delle esportazioni del nostro Paese, ma occorre fare di più. E infatti per quanto riguarda i processi di promozione internazionale dei prodotti made in italy, il documento chiede che la programmazione dei progetti messi in campo dal governo vengano preventivamente condivisi con i firmatari, in modo che i fondi disponibili siano effettivamente orientati ed utilizzati per le necessità di espansione nei mercati più promettenti. Sulla formazione tecnica e professionale è necessario, poi, mantenere alta l’attenzione, soprattutto verso i giovani che sono il futuro del settore. “Sarà importantissimo investire per dare continuità e qualità alle competenze richieste dalle professioni della moda nell’era dell’industria 4.0 e della digitalizzazione. A tale scopo non è secondario definire congiuntamente le modalità di utilizzo del Fondo Nuove Competenze e dei Fondi Interprofessionali”.
Infine un punto qualificante delle richieste di sindacati e Confindustria moda all’esecutivo riguarda il sostegno all’occupazione femminile e alle politiche di condivisione degli impegni di cura, si chiede infatti: “Per le caratteristiche e le peculiarità del settore costituito da una forza lavoro prevalentemente femminile, occorre prevedere specifiche linee di sostegno pubblico, con il coinvolgimento attivo di tutte le parti firmatarie il presente documento, al fine di favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sia nell’organizzazione del lavoro che negli orari dei servizi pubblici di trasporto e di assistenza alla persona”.
Ma a tutto questo i firmatari della missiva pongono alcune premesse, tre per l’esattezza: bisogna lavorare in sicurezza e quindi occorre sostenere le imprese nell’applicazione rigorosa dei protocolli per la salvaguardia della salute di lavoratori e lavoratrici. È poi indispensabile ridurre il cuneo fiscale tanto più in un settore dove il costo del lavoro incide per il 30 per cento sui costi di produzione. Infine il capitolo ammortizzatori sociali, si chiede di: “allineare le disponibilità di cig Covid19 al tempo per il quale vige il divieto di licenziamenti e prevedere nuove disponibilità di cig Covid19 (aggiuntive agli strumenti ordinari), per tutto l’anno 2020 e per il 2021, per salvaguardare il patrimonio di professionalità faticosamente costruito negli anni e indispensabile per il rilancio futuro del settore; rafforzare l’indennità di cig, innalzando gli attuali massimali mensili; velocizzare le procedure di autorizzazione della cig". La lettera è partita, si attendono risposte.