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“Il problema non sono i nomi, né i nominalismi. Il Mise tradizionalmente non è solo un ministero dell’impresa, perché lo sviluppo economico è tale quando ha come obiettivo il benessere del Paese”. Per Emilio Miceli, segretario confederale Cgil (con delega a industria e reti), la nuova denominazione a ministero dell’Impresa e del made in Italy ha un significato ben preciso.
“Chiudere questo ministero – spiega – dentro uno spazio angusto, mirato alla difesa dell’impresa, significa non cogliere le finalità più profonde di quell’attività: ho sempre pensato, infatti, che questo dicastero dovesse rappresentare i bisogni complessivi di un Paese industriale, non solo quelli dell’impresa”.
All’impresa è stato aggiunto anche il “made in Italy”. Che significato può avere?
Il made in Italy è un tema strategico per l’Italia, vedremo come lo declineranno. Mi aspetto, ad esempio, provvedimenti che spingano ad andare oltre ‘l’etichetta’. Difendere il made in Italy significa anzitutto ricomporre le filiere che si sono perdute nei meandri del globo. E significa che il prezzo dei manufatti deve indicare una qualità superiore anche negli accessori, nelle componenti del prodotto.
La nuova denominazione fa venire in mente un’operazione di marketing…
Ma non può essere solo un ministero del marketing. Quella è la naturale conseguenza di un prodotto che esprime qualità in tutte le sue parti. A preoccuparmi, stando alla nuova dominazione, è che le parole “made in Italy” ci mostrano solo una faccia dell’industria italiana: la siderurgia, la chimica, l’auto, la difesa, non sono made in Italy. Ma senza questi asset non c’è industria in Italia.
Per l’industria, appunto, i prossimi anni sembrano annunciarsi difficili. Condividi questa preoccupazione?
Il problema che rischiamo d’incontrare nel prossimo futuro è che l’alto costo dell’energia tenderà a spostare l’industria di base e quella energivora in altre aree del globo, spogliando progressivamente il Paese della sua missione industriale, Paese che ora è secondo in Europa e settimo nel mondo. E senza industria di base non c’è manifattura.
E forse lì, allora, che va avvistato il problema di fondo dell’Italia?
Certamente. Il ministero dello Sviluppo economico, per tornare alla vecchia denominazione, deve essere il luogo dove tutte queste preoccupazioni trovano riflessioni adeguate e capacità di soluzione. Il ministero dell’Impresa – mi si perdoni la forzatura – somiglia più al ministero di una corporazione che non a quello dello sviluppo dell’industria. L’idea stessa di un dicastero a protezione dell’impresa è sul piano culturale un passo indietro.
Ad attendere il nuovo ministro ci sono decine e decine di tavoli di crisi aperti. Qual è la situazione?
In tutte queste vertenze c’è uno squarcio della storia industriale dell’Italia. Una storia che rischia d'incancrenirsi, ed è da lì che bisognerebbe partire. Importanti territori e importanti filiere produttive sono nel mezzo di una crisi assai pesante: sarebbe necessario un confronto con tutte le forze sociali, mirato a guardare emergenze e priorità, con una capacità rinnovata di coordinare l’azione di governo dentro una nuova cornice che solo un adeguato intervento pubblico è in grado di risolvere.
Quali sono i settori più problematici?
Sicuramente dobbiamo chiederci che fine farà Telecom e come evitare una disintegrazione di quell’azienda. C’è il trasporto aereo, dove occorre ridare funzione anche alla compagnia di bandiera. Abbiamo l’insieme della siderurgia italiana sottoposto a forte pressione. Dobbiamo occuparci del futuro della chimica e della petrolchimica, del futuro dell’auto, l’asset più importante, che vive un fortissimo ridimensionamento della produzione nazionale.
E poi abbiamo tante vertenze che vanno ben oltre la singola, seppur ovviamente drammatica, crisi aziendale.
Penso ad Ansaldo Energia, alla Whirlpool, al futuro di Termini Imerese e di Siracusa, ai distretti industriali emiliani e al distretto energetico di Ravenna. Potrei citarne davvero molte altre. Il quadro della crisi tocca nel profondo le basi del sistema industriale del Paese. Il governo non può fare da solo né può pensare di guardare a questi grandi asset come un insieme d’imprese: il vero problema di questa fase è la tenuta complessiva del tessuto industriale, del sistema paese.