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È la politica industriale che manca, sentiamo sempre ripetere. Sarebbe compito del governo nazionale, ma gli ultimi esecutivi (e “ultimi” è un eufemismo, qui parliamo di decenni) hanno semplicemente ignorato la questione, limitandosi a favorire le privatizzazioni e ad adottare incentivi erga omnes senza alcuna selettività. Ma la necessità è rimasta, facendosi sempre più impellente. “Abbiamo bisogno di un intervento pubblico perché dobbiamo cambiare scenario economico”, spiega il segretario confederale Cgil Emilio Miceli: “Non si tratta di statalizzare, ma di disegnare le priorità e le prospettive industriali del Paese, indirizzando un mutamento di sistema e aumentando il tasso di competitività globale dell’Italia”.
Un’esigenza che il sindacato ha espresso infinite volte, di solito inascoltato. Ma ora c’è una novità: la quantità di capitali (dall’Europa arriveranno 209 miliardi di euro), senza precedenti nella storia nazionale, che possono essere pompati nel sistema economico. “Un’occasione per non ritornare su strade già battute”, argomenta l’esponente sindacale, indicando come queste risorse debbano “dare uno scossone al modello di sviluppo, conseguire un maggiore efficientamento, accelerare l’evoluzione del cambio energetico e ambientale, realizzare la digitalizzazione della pubblica amministrazione. Insomma, puntare all’ammodernamento complessivo del Paese”.
Da qui nasce l’esigenza, illustra il dirigente Cgil, di “una cabina di regia, di un’agenzia di sviluppo, al fine di dare una maggiore organicità e un diverso quadro di coerenze alla politica industriale”. Uno strumento, dunque, che abbia “capacità finanziaria e visione progettuale”. Una tecnostruttura con ampi margini d’intervento, che metta assieme “finanza pubblica, finanza d’impresa e risorse provenienti dal sistema delle autonomie locali”. Un organismo nel quale sperimentare anche “l’effettiva partecipazione dei lavoratori alle decisioni”.
Un grande paese industriale come l’Italia, che rimane il secondo in Europa e il settimo nel mondo, deve avere “alcune condizioni di sistema soddisfatte: deve produrre acciaio e non acquistarlo, pagare l’energia a basso costo, avere infrastrutture lunghe e corte che permettano di chiudere l’intero ciclo della produzione, importare semilavorati ed esportare prodotti finiti”. E se negli ultimi trent’anni il mercato ha prevalso sullo Stato, è venuto il tempo che ora lo Stato riequilibri il rapporto. Anche perché alcune verità sono palesi: “Se lo Stato non prende in carico Alitalia, noi non avremo più una compagnia aerea; se non c’è un impegno diretto del sistema pubblico a Taranto, non avremo più una siderurgia”.
Dal ragionamento, com’è evidente, consegue un giudizio sulle privatizzazioni. “Questi processi, dovuti in larga parte all’esigenza di fronteggiare il debito pubblico, hanno determinato, come le vicende Ilva o Telecom dimostrano, un arretramento progressivo della nostra capacità competitiva”, afferma il segretario confederale, rilevando anche la necessità di “una svolta nel sapere manageriale, dominato fin qui dalla ‘cultura’ finanziaria e insufficiente sul versante delle politiche di sviluppo delle imprese. La finanza ha certamente consentito a un pezzo del sistema imprenditoriale di continuare a vivere, ma nessuna finanza potrà mai sostituirsi a un settore produttivo che non trovi in sé le ragioni del proprio sviluppo”.
L’intervento pubblico in economia, del resto, è quanto già accade fuori dell’Italia. Stellantis, ossia la nuova società che nascerà dalla fusione tra Fca e Psa, ne è un esempio. “Da una parte c’è l’ex Fiat, dall’altra c’è direttamente la Francia”, evidenzia il dirigente Cgil: “Anche in tempo di globalizzazione e di liberismo, i francesi non hanno mai smesso di presidiare ciò che ritengono d’importanza nazionale nel sistema dell’industria e del terziario pubblico”. Le imprese italiane “sono accerchiate da grandi conglomerati in cui trovano posto i sistemi statali, negli altri Paesi i colossi aziendali sono finanziati dalla mano pubblica, noi non possiamo essere così arroganti da rifiutare una simile modalità”.
La proposta, dunque, è la creazione di “un istituto o un’agenzia nazionale per lo sviluppo che possa muoversi sia come soggetto finanziario sia come tecnostruttura, tramite il quale lo Stato possa perseguire i propri obiettivi di politica economica e industriale”. Un istituto che preveda la partecipazione di banche, di Cassa depositi e prestiti, delle stesse grandi aziende pubbliche, che sappia esprimere “quella cultura dell’intervento pubblico, sia nella gestione diretta, dove si rendesse necessario, sia nel coordinamento degli investimenti pubblici, a partire dai fondi del recovery fund. Insomma, un soggetto che abbia l’obiettivo di irrobustire il nostro tessuto industriale”.