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L’innovazione tecnologica è pervasiva e procede a velocità inarrestabile, portando con sé immancabili contraddizioni. Ma nessuno se ne può chiamare fuori. Anzi, starci dentro governandola è l’unico modo per creare lavoro dignitoso, proteggere l’ambiente, e guardare con fiducia a un futuro di benessere che sia anche argine alla rabbia sociale e alla sfiducia nella rappresentanza che ormai interessa non solo l’Italia ma l’intera Europa. Questi alcuni dei temi affrontati dal vicesegretario generale della Cgil, Vincenzo Colla, nel suo incontro con la redazione di Rassegna Sindacale. “Siamo ancora in una fase di transizione e nessuno, credo, è in grado di capire cosa avverrà in questo passaggio epocale – ha detto –. Per questo non mi metto né tra chi crede che tutto ciò che viene dalla tecnologia sia il male, ma neanche tra chi pensa che invece vada tutto bene. Provo a farmi delle domande, a darmi delle risposte nel concreto delle situazioni e, da questo punto di vista, se osservo il nostro paese, è evidente che non stiamo messi benissimo.
Rassegna In che senso?
Colla Nel senso che abbiamo affrontato la crisi come se fosse semplicemente una crisi. Ma non è stato così: tra il 2008 e il 2018 ci sono stati grandi mutamenti tecnologici, di prodotto, processo e competenze. In questo decennio in Italia abbiamo perso il 25 per cento di produzione manifatturiera e, se andiamo a vedere la natura di queste aziende, ci accorgiamo che erano tendenzialmente di piccole dimensioni, sottocapitalizzate – e quindi in mano alle banche – e senza investimenti innovativi. La prima lezione è dunque questa: se non si fanno investimenti innovativi, si va fuori mercato o magari per un periodo si regge ma – non potendo più competere sulla svalutazione della moneta – si compete nel modo classico: svalutando i diritti dei lavoratori, applicando contratti pirata e così via. Inoltre, oltre a essere ingiusta, è una strada che non porta lontano, perché da qualche parte nel mondo c’è sempre qualcuno che costa meno di te. E non è con una manifattura di questo tipo che si può competere nelle grandi catene del valore, investendo nella qualità e creando lavoro dignitoso.
Rassegna È il tema del lavoro povero…
Colla Certamente. Purtroppo in questa situazione nel nostro paese la gente pur di lavorare si accontenta di tutto; tuttavia in questo modo il lavoro non è più strumento di emancipazione, non contiene un’idea di futuro, non rappresenta più un pezzo del diritto di cittadinanza ma, semplicemente, si lavora per campare. Tutto questo, ovviamente, genera una rabbia sociale che produce effetti pericolosi: sfiducia nella politica e, più in generale, nella rappresentanza, anche sindacale. Insomma, tutti questi fattori producono un avvitamento molto forte – spesso cavalcato dalla politica peggiore – da cui però bisogna uscire, se si vuole avere un’idea di futuro. D’altro canto, per tornare al nostro tema, ci sono imprese che questo contesto lo hanno capito. Quel 30 per cento di aziende che in questi anni hanno fatto investimenti in innovazione di processo, prodotto, competenze – avendo compreso che nella crisi un mercato comunque c’era, e, anzi, per certi aspetti anche più ampio e che però bisognava riuscire a starci dentro – sono cresciute e non hanno mai guadagnato così tanto. E non è un caso che il sindacato in queste realtà è presente, perché laddove c’è valore aggiunto noi ci siamo e abbiamo fatto contrattazione di qualità, stabilizzazioni e così via.
Rassegna Purtroppo però in Italia imprese virtuose di questo tipo sono una minoranza…
Colla Il tema della transizione è questo: far sì che un numero sempre maggiore di imprese si sposti verso questo versante virtuoso. Insomma: il 25 per cento del manifatturiero lo abbiamo perso; il problema ora è capire dove va il restante 75 per cento: verso i segmenti bassi o quelli alti della competizione, dove cioè si crea lavoro dignitoso? Siamo così alla questione annosa della mancanza di una seria politica industriale in grado di leggere e orientare questa transizione. Si ragiona di politica industriale solo con modi da campagna elettorale, ma così non si sa dove poter creare lavoro di qualità. Mi spiego meglio. Questa transizione ha due grandi pilastri di cambiamento: il primo è la certezza che da un manifatturiero “scoppiocentrico” o “gommacentrico” ci si sta spostando verso produzioni più rispettose dell’ambiente (l’esempio classico è quello dell’auto elettrica), perché è qui che in futuro si sposteranno le grandi catene del valore. Pochi lo dicono ma attualmente il più grande investimento della Comunità europea se lo è assicurato l’Enel che sta costruendo un’autostrada elettrica che collegherà la Lombardia con l’Austria. E indovinate con chi la sta facendo? Con la Volkswagen. Ancora, due grandi major del petrolio, come la Total e la Shell, stanno investendo 20 miliardi con la Mitsubishi e la Toyota sull’idrogeno, perché hanno capito che c'è uno spostamento culturale che ormai va in quella direzione. Insomma, la questione ambientale diventa sempre più un fattore di competizione. Ed è qui che si potrà creare lavoro di qualità. E se l’Italia non riesce a stare all’interno di queste filiere innovative, diventerà un paese contoterzista povero e subordinato agli altri. Ed è un peccato, perché la qualità da noi non manca: nella componentistica, ad esempio, o con le cosiddette multinazionali tascabili, siamo in grado di stare in competizione con delle produzioni di grande qualità. Ormai non conta tanto essere piccoli o grandi, quanto essere qualificati nella filiera.
Rassegna Par di capire che, oltre al tradizionale deficit di una politica industriale, anche le grandi imprese debbano darsi una mossa in Italia. Nel ragionamento che stai facendo, sembra un po’ aleggiare lo “spettro” della Fca e dei mancati investimenti nell’auto elettrica…
Colla Finalmente in Fca hanno iniziato a capire che questo tipo di investimenti va fatto. Certo, sono in netto ritardo; mentre i concorrenti sono già alla messa in produzione, Fca è ancora in fase di progettazione e non si sa quando le nuove produzioni andranno in linea. E ovviamente, invece, nella transizione conta molto chi arriva prima. Detto questo, però, ancora una volta se guardo a questo paese, non è vero che va tutto male e che in questi anni non è successo nulla. Eni, Enel, Leonardo, Ferrovie dello Stato sono soggetti multinazionali di grande rilievo. Enel, ad esempio, sta facendo grandi investimenti sulla riconversione e nell’ambito delle rinnovabili è ormai un driver a livello mondiale. L’Eni, dal petrolio, sta investendo nella transizione del gas, mentre Terna e Snam stanno anch’esse investendo in dosi cospicue sulle reti. E poi ci sono le multinazionali.
Rassegna Qualcuno però non ama la “spesa” delle multinazionali in Italia…
Colla Non sono d’accordo. Basta criticare le multinazionali; o meglio, bisogna criticarle quando se lo meritano, ma non a prescindere. Quando sento lo slogan “padroni a casa nostra”, mi viene da sorridere. In un contesto globale come quello attuale è una frase che non ha senso: se Trump mette i dazi, chiudono le imprese di Bergamo. E quando si paventa che i cinesi stanno arrivando, non si capisce che i cinesi sono già qua. Ma lo sappiamo o no che i Cinesi hanno il 35 per cento della Cassa depositi e prestiti Reti? Non solo, esprimono nomine nei consigli di amministrazione di Eni e Snam, e lo fanno perché hanno capito che le reti sono il futuro e se io perdo autonomia nelle reti, non posso fare politica industriale. Insomma, lo scenario è complesso e la sfida è alta. D’altro canto, la siderurgia a Taranto – pur con tutti i problemi che sappiamo – l’abbiamo salvata grazie a un investitore indiano e lo stesso discorso vale per Piombino. Non esistono oggi imprenditori italiani in grado di fare investimenti di questa portata. Quindi altro che paura degli stranieri: noi abbiamo bisogno di attrarre capitali esteri e, insieme, far crescere le nostre imprese nelle filiere innovative.
Rassegna Tuttavia nel caso delle reti il concetto di “padroni a casa nostra” è giusto.
Colla Assolutamente sì. Le reti devono essere a controllo pubblico, perché altrimenti si perde l’autonomia di poter discutere alla pari con gli altri. Aggiungo che l’investimento sulla rete 5G è fondamentale: come le facciamo le smart city altrimenti? E naturalmente anche la fibra ottica deve essere a controllo pubblico.
Rassegna L’innovazione però – si pensi al mondo della gig economy – non è tutto rosa e fiori. Le condizioni di lavoro e le retribuzioni non sono sempre adeguate. In alcuni casi, paradossalmente, si denunciano situazioni di sfruttamento intollerabili, quasi da prima rivoluzione industriale.
Colla Avete ragione. Situazioni di sfruttamento esistono. Prendiamo il caso di Amazon, con cui abbiamo ottenuto un ottimo accordo grazie proprio allo sciopero fatto nei magazzini di Castel San Giovanni. Lì ci sono dentro 1.500 lavoratori diretti e altrettanti in somministrazione. Tutti hanno reagito a quella piattaforma digitale che dettava tempi di lavoro insopportabili. Contrattare l’algoritmo vuol dire anche questo: quei ragazzi sono venuti a cercarci, noi abbiamo organizzato una grande mobilitazione e siamo riusciti a cambiare le cose, dando qualifiche e diritti. E il bello è che questa lotta l’hanno fatta quelli che avevano il contratto anche a nome dei colleghi precari. Poi naturalmente ci sono altri ragionamenti da fare. I grandi colossi come Google, Amazon, Facebook e Microsoft insieme fanno molto di più del prodotto interno del nostro paese; ma lo fanno con un milione di lavoratori diretti, mentre noi con 10 milioni. Hanno vinto, la loro presenza è ormai globale: il problema a questo punto è come governiamo questo potere. Credo che questo sia compito della politica che però, finora, non sembra in grado di farlo. Se Apple basa la sua ragione sociale in Irlanda dove paga appena lo 0,5 per cento degli utili e se il lavoro è tassato al 30-35 per cento, come si fa a sostenere il Welfare? Non dimentichiamo che la costruzione del sistema di Welfare è stata l’impresa più grande realizzata dall’Europa. Tutto questo grazie a una grande opera di mediazione tra capitale e lavoro che ha garantito prosperità e protezione sociale per 70 anni ai cittadini del nostro continente. Quando critichiamo l’Europa e diciamo che alcune sue politiche vanno cambiate, non dimentichiamoci però di tutto ciò che questa realtà ha rappresentato e continua a rappresentare.
Rassegna Quando citavi l’importanza delle reti, materiali e immateriali, come condizione necessaria per una politica industriale, ti riferivi anche a Tav e Tap? Credi siano importanti, anche a costo di un certo impatto ambientale?
Colla Ma di quale impatto ambientale parliamo? La Tav è un corridoio internazionale su binari; come si fa a dire che è dannoso, se dobbiamo spostare – proprio per quella transizione energetica e ambientale di cui abbiamo parlato – la logistica dei trasporti, che a oggi è al 90 per cento su gomma e con motori a scoppio, su ferro? Quel corridoio è strategico, perché collega le zone più sviluppate d’Europa. Poi ci sono anche altri aspetti: ormai la libertà di movimento delle persone è diventata un fatto di libertà e questa mobilità va garantita con mezzi puliti, quindi ferro e auto elettriche. L’altra questione è che se io butto a mare un progetto come quello della Tav, con tutti gli accordi e contratti siglati a livello internazionale, l’Italia perde di reputazione. Quali imprese verrebbero a investire in un paese con così scarsa credibilità? Altro che articolo 18, è su queste cose che si gioca l’attrattività di un paese: affidabilità e infrastrutture.
Rassegna E per quanto riguarda la Tap?
Colla Anche in questo caso non capisco. Nel nostro paese ci sono 35.000 chilometri di tubi e ci preoccupiamo della Tap? Tra l’altro, il gas nella transizione energetica è fondamentale. Anche perché le rinnovabili hanno problemi oggettivi: batterie per lo stoccaggio di energia ricavata da sole o vento ancora non sono state inventate, ma io ho bisogno di energia per 24 ore al giorno. Quando non c’è il sole o non c’è vento, come facciamo? Naturalmente nel tempo dovremmo avere sempre più rinnovabili e meno gas, ma nella transizione il gas è fondamentale.
Rassegna Ma non bastano le condutture che già abbiamo?
Colla Sul tema si intrecciano anche questioni geopolitiche. Se Putin chiude il suo gasdotto per le sue questioni con l’Ucraina o la situazione in Libia si inasprisce ulteriormente, dobbiamo avere fonti di approvvigionamento alternative. Per questo la Tap è fondamentale. Ho un grandissimo rispetto di chi si batte per l’ambiente, ma se le questioni ambientali vengono utilizzate per le campagne elettorali, allora si fanno pasticci e spesso si nasconde la natura complessa delle questioni in gioco.
Rassegna Insomma, per creare lavoro dignitoso serve investire su qualità e innovazione e, perché ciò avvenga, occorre una politica industriale che si dia tempi medio-lunghi. Il governo attuale sembra invece mettere molta enfasi sul ruolo dei centri per l’impiego, in relazione ovviamente al reddito di cittadinanza. Pensi che sia la strada giusta?
Colla Intanto una premessa. L’operazione fatta con i navigator ha dell’assurdo: come si possono avere operatori precari in quel ruolo? È un controsenso. Per quanto riguarda i centri per l’impiego, la situazione è molto differenziata. Abbiamo eccellenze, ma anche luoghi dove praticamente non ci sono. Il problema cruciale è quello di far incontrare domanda e offerta di lavoro, perché la tecnologia ormai cambia a ritmi vertiginosi e questo spiazza la persone producendo situazioni paradossali. Penso ad esempio al fatto che molti ragazzi del Sud lasciano l’Italia e portano all’estero competenze grazie alle quali quei paesi fanno concorrenza al nostro. Al contrario, invece, al Nord non si riesce a calibrare e a far incontrare domanda e offerta di lavoro. E qui bisogna anche chiamare in causa la scuola.
Rassegna Sarebbe a dire?
Colla Mi spiego con un esempio. In Italia abbiamo 8.000 ragazzi che escono dagli istituti tecnici industriali mentre in Germania sono 80.000. Per carità, io sono per la cultura umanistica nella scuola, ma bisogna anche tener conto del lavoro, degli sbocchi possibili. In Italia avremo bisogno di un new deal dell’istruzione e delle competenze: è necessario per far incontrare domanda e offerta di lavoro.
Rassegna Quindi il reddito di cittadinanza non serve proprio?
Colla In alcune aree del paese il problema non lo risolviamo con il reddito di cittadinanza; serve il lavoro di cittadinanza perché il Sud non va più visto in un’ottica di assistenzialismo, dandogli un po’ di soldi. No, se noi cambiamo prospettiva, il Mezzogiorno può davvero diventare una grande opportunità per il paese.
Rassegna Quando si parla di transizione tecnologica, l’altro grande tema è la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Molti infatti sostengono che l’innovazione in molti settori porterà alla contrazione della manodopera necessaria per produrre. Può tutto ciò rappresentare un’occasione per il sindacato e per la contrattazione?
Colla Nel solco del nuovo welfare che può creare lavoro, il tema degli orari è sicuramente una nuova frontiera sindacale. Però bisogna anche in questo caso fare attenzione a come la questione viene trattata. Prendiamo l’ottimo accordo fatto recentemente in Germania dalla Ig Metall per i metalmeccanici: se devo assistere un familiare bisognoso, posso scendere a 28 ore settimanali e avere un’integrazione economica da parte dello Stato; oppure salire fino a 40 ore per coprire le spese universitarie di un figlio. La grande novità è che quella modulazione non la decide l’imprenditore, ma il lavoratore. Eccolo, allora, il punto nodale: nell’era dell’innovazione l’orario deve essere sempre di più nella disponibilità soggettiva. In tutto ciò abbiamo sicuramente bisogno di più tecnologia – non siamo ancora in saturazione come accade in Germania – e in questa fase stiamo già facendo buoni accordi aziendali. Però dobbiamo allargare l’orizzonte e pensare a come governiamo non solo gli orari, ma anche il passaggio dalla vita lavorativa a quella pensionistica, contrastando per esempio il part-time involontario che non dà prospettive previdenziali. Tutto si tiene insieme.
Rassegna In tutti i ragionamenti che stiamo facendo – innovazione, mutamento costante delle competenze necessarie e dei saperi – rientra a pieno titolo anche la formazione. Non ti sembra un capitolo sin troppo sottovalutato?
Colla Il diritto alla formazione deve diventare un vincolo contrattuale, non c’è dubbio. Vi faccio un esempio. Noi abbiamo dato il nostro assenso a Impresa 4.0 perché, per una volta, gli incentivi sono mirati solo a chi fa investimenti digitali in grado di creare lavoro. Ma che succede se poi quel personale non è in grado di usare le nuove macchine? Perciò insistiamo sulla necessità di destinare risorse importanti alla formazione contrattata che deve diventare un diritto per i lavoratori, e non una scelta unilaterale dell’azienda. Dall’altro lato, però, anche i lavoratori devono abituarsi alla formazione permanente, perché qui c’è un tema di merito e di competenza: se uno l’ha fatta per sei mesi e un altro no, è evidente che il percorso di carriera cambia. I giovani devono avere il diritto di poter scegliere e scommettere sulle proprie competenze. Anzi, aggiungo una cosa: teniamoci ben stretta la contrattazione collettiva nazionale, certo, però in quella decentrata dobbiamo sempre più iniziare a considerare le competenze individuali e, quindi, offrire un ventaglio di possibilità come diritto personale. Perché, se facciamo la stessa formazione per tutti, rischiamo di fare un’operazione che a prima vista può sembrare stupenda, ma alla fine non sarà efficace.
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Rassegna Insomma, ormai le competenze hanno un ruolo centrale. E la contrattazione in questo senso svolge un ruolo sempre più decisivo…
Colla Le aziende altamente innovative ormai preferiscono “comprare” le competenze anziché il tempo delle persone. Mentre il luogo di lavoro diventa sempre più mobile, è evidente che c’è bisogno di più contrattazione. Lo devono capire le associazioni datoriali, lo devono capire tutti: la contrattazione non è una fisima della Cgil, è qualcosa che ha fatto la storia di questo Paese. E oggi più che mai ne abbiamo bisogno. Se non siamo in grado di contrattare le complessità dei processi produttivi, il conflitto diventa inevitabile. Quindi sì, è possibile contrattare l’innovazione, ma ciò deve avvenire a monte, non a valle: se parliamo di partecipazione, l’imprenditore deve riconoscere sin dall’inizio il sindacato per decidere insieme alcune cose, come la gestione del valore aggiunto, gli obiettivi, la complessità dell’organizzazione.
Rassegna Il tuo è un ragionamento d’anticipo che guarda a un’idea di Paese nel lungo periodo. Come si fa a rapportarsi con un legislatore che invece guarda quasi esclusivamente alle scadenze elettorali?
Colla A furia di promesse, ormai le campagne elettorali sembrano diventate centri di costo. Ma alla fine chi paga? Cosa c’è di serio, per dire, in una flat tax al 15 per cento fino a 65 mila euro? È ovvio che così si alimentano le partita Iva fasulle e tanti dipendenti finiranno in quella bolla. Quindi, in generale, c’è senza dubbio bisogno di utilizzare anche la mobilitazione e il conflitto. Penso alla grande manifestazione del 9 febbraio di Cgil, Cisl e Uil: è stata davvero molto importante, in tanti hanno aderito perché sono stufi di chi racconta che è Natale tutto l’anno. Da tempo stiamo dicendo a questo governo che ci sta portando in una sorta di auto-avvitamento e che senza investimenti strategici non andiamo da nessuna parte. Prendiamo quota 100: certo, alla Cgil va bene se un lavoratore può finalmente andare in pensione, ci mancherebbe altro. Però non dimentichiamo che questa è l’epoca della discontinuità, e quota 100 non dà risposte alle figure più deboli, ai giovani, ai precari, alle donne. Il rischio è che salti tutto il sistema di welfare, non a caso come Cgil appoggiamo l’idea di una ‘pensione di garanzia’ per i giovani. Poi c’è tutta una serie di provvedimenti che non vanno bene e che aprono altre traiettorie di conflitto, come gli investimenti assenti e la mancata lotta all’evasione che ci costa 200 miliardi ogni anno. Prendiamo gli edili: del milione circa di posti di lavoro persi con la crisi, circa 600 mila sono in quel settore e il governo, anziché puntare su filiere innovative che darebbero una mano anche all’ambiente, fa un decreto sugli appalti che ci riporta al massimo ribasso e finirà col favorire le mafie e le cooperative spurie. Qua si torna indietro invece di andare avanti.
Rassegna Come vedi in tutto questo il ruolo della politica, in particolare della sinistra? Qual è il grado di interlocuzione con il sindacato?
Colla Lo abbiamo scritto nell’ultimo documento congressuale: la Cgil ha bisogno di una forza progressista, la nostra storia non è indifferente a questo. Con l’autonomia che ci contraddistingue, penso che dobbiamo rivolgerci alla parte progressista in grado di fronteggiare la politica sovranista e nazionalista. Che dobbiamo aiutare tutti i partiti di sinistra e consegnare loro le nostre elaborazioni, perché autonomia non è gelosia. Ma siccome non sediamo in Parlamento e nemmeno ci vogliamo andare, perché siamo una grande organizzazione sindacale, dobbiamo renderci conto che, ogni volta che si vota, un Parlamento ci sarà: un conto è avere a che fare con soggetti progressisti abituati a dialogare con noi, sui nostri progetti; altro è cercare l’interlocuzione con chi nemmeno ti riconosce. Ci vorrà del tempo, ma prima o poi capiranno che c’è bisogno di contaminarsi con noi in una forma intelligente per costruire il futuro di questo Paese. E io sento delle novità: non è giusto criticare soltanto, sarebbe sbagliato non vedere che qualcosa si sta spostando. E in ogni caso non dobbiamo aver timore di dire che abbiamo bisogno di partiti progressisti. Ne ha bisogno la gente che lavora, ancora prima della Cgil, ne hanno bisogno i pensionati. Anche per mettere in sicurezza la nostra Costituzione, una cosa oggi non più banale. Come diceva Liliana Segre, “il più grosso errore che fu fatto ai miei tempi fu l’indifferenza”. Ecco, su questo terreno gli italiani devono fare un po’ di formazione e forse questo è il momento di fare una formazione progressista.
(Hanno partecipato al forum Emanuele Di Nicola, Roberto Greco, Guido Iocca, Stefano Iucci, Maurizio Minnucci, Carlo Ruggiero)