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Negli ultimi anni il panorama previdenziale è profondamente cambiato, ma non in meglio. Nonostante le ripetute promesse di superare la legge Monti-Fornero, i recenti interventi normativi hanno addirittura aggravato una situazione già complessa, trasformando quella legge – odiata da tutti – nell’unico riferimento certo per l'accesso alla pensione.
Il governo ha anche preso impegni chiari con l'Europa, basta leggere le poche righe sulle pensioni del piano strutturale di bilancio a medio-lungo termine. Lì si afferma che, con l’aumento previsto della spesa previdenziale sul Pil nei prossimi anni, si renderà necessario allungare l’età pensionabile. Altro che 41 anni di contributi per tutti.
Le misure adottate negli ultimi anni – e confermate dall’ultima legge di bilancio – hanno poi ridotto drasticamente la già limitata flessibilità in uscita. Se nel 2023 le uscite per Ape Sociale, Opzione Donna e Quota 102 erano state 63.634, nel 2025 la relazione tecnica alla legge di bilancio prevede appena 26.600 uscite, un taglio del 60%.
Un tema dimenticato
Ciò che colpisce maggiormente, però, è la scomparsa dal dibattito politico di un principio fondamentale: i lavori non sono tutti uguali. È un concetto che dovrebbe essere ovvio, ma non se ne parla più. Anzi, i numeri ci dicono il contrario: nel caso dei lavori gravosi e usuranti, le tutele si stanno riducendo. Molti di loro sono ancora esclusi dalle misure di accesso anticipato.
È quindi evidente l’urgenza di affrontare questo tema. Non possiamo far pagare il costo di una flessibilità in uscita proprio a chi svolge lavori gravosi e usuranti. Oggi, chi esce prima subisce una penalizzazione pesante a causa dei coefficienti di trasformazione più bassi, il tutto si traduce in una pensione più bassa.
Ripensare il sistema
È evidente che occorre ripensare il sistema. Se vogliamo una vera equità, i coefficienti di trasformazione per i lavoratori gravosi e usuranti devono essere rivisti al rialzo. Altrimenti, il rischio è che proprio chi svolge lavori più pesanti, e spesso ha un’aspettativa di vita più bassa, finisca per fare solidarietà verso gli altri lavoratori, ricevendo meno pur avendo contribuito di più in termini di fatica e salute.
Un esempio emblematico è il settore dell’edilizia. È impensabile che un operaio edile debba attendere i 67 anni per accedere alla pensione di vecchiaia. Manca insomma una giusta flessibilità e una pensione adeguata per chi ha svolto una vita di lavoro fisicamente usurante.
Nuovi strumenti
Risultano quindi importanti strumenti concreti come il Fondo prepensionamenti per gli operai edili, promosso dai sindacati edili di Cgil, Cisl e Uil. Si tratta di una soluzione positiva che risponde a un vuoto lasciato dalle politiche governative. Questo fondo consente infatti di affrontare e gestire al meglio situazioni critiche che coinvolgono lavoratori impiegati in mansioni particolarmente gravose e usuranti, in un contesto in cui il governo non ha messo in campo strumenti adeguati per tutelare i lavoratori in condizioni di maggiore rischio.
Questo fondo garantisce infatti una possibilità concreta di uscire anticipatamente dal lavoro, evitando che i sacrifici di una vita si traducano in esclusioni o penalizzazioni economiche. Soluzioni come queste dimostrano come sia possibile costruire meccanismi più equi e inclusivi, soprattutto per chi opera in settori ad alta usura fisica, come quello edile. È fondamentale che il governo cambi direzione e decida di affrontare seriamente il tema delle pensioni, aprendo un vero confronto con il sindacato. Non serve solo un tavolo, ma – per usare un termine più appropriato – un vero cantiere della previdenza. Peccato che l'ultimo incontro sulle pensioni risalga al 18 settembre 2023.
Ezio Cigna è il responsabile delle politiche previdenziali della Cgil