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Kevin Laganà, Michael Zanera, Giuseppe Sorvillo, Giuseppe Saverio Lombardo, Giuseppe Aversa. Riuscite davvero a leggere questi nomi senza provare vergogna? Senza essere investiti da un lacerante rimorso morale? Da un intimo e profondo senso di colpa? E con quale faccia corrucciata scrollate le loro foto spensierate, immortalate sui social poco prima che scoccasse quella maledetta mezzanotte? Con che animo ascoltate i ricordi e i singhiozzi di parenti e amici? Ma, soprattutto, come fate a non autoproclamarvi colpevoli per questa ennesima strage di Stato?
Perché dopo la nuova spoon river operaia, consumata in un binario della provincia di Torino, non ci si lava la coscienza imbrattata di sangue rigurgitando le solite parole di circostanza. Generando in automatico quel cordoglio dal sapore posticcio. Risparmiateci, vi prego, almeno la stomachevole retorica lessicale della “tragedia che si poteva evitare”. O quel burocratico monito del “faremo quanto prima piena luce sull’accaduto”. Fatelo innanzitutto per il rispetto verso le vittime e i loro cari.
Il disgusto istituzionale provocato da chi oggi parla di prevenzione è della stessa putrida intensità olfattiva di chi continua a tagliare i fondi per la sicurezza, a ridurre gli ispettori del lavoro, a giocare con l'infame algoritmo, a costringere le persone a turni massacranti, condannandoli di fatto a una vita che sconfina perennemente in una terra di non ritorno. In balìa di un destino già segnato.
E poi ci si mette anche la schiavitù legalizzata dei subappalti e degli appalti a sfidare la sorte. Un sistema perverso che strizza l’occhio alle imprese e aumenta il rischio di uscire orizzontali dal posto di lavoro. In un mondo sempre più automatizzato e dove l’intelligenza artificiale scandisce l'alienazione dei nostri tempi moderni, parlare di fatalità o anche di errore è un insulto al buon senso.
“Morire sul lavoro è un oltraggio ai valori della convivenza”. Le parole del presidente Mattarella andrebbero tatuate nella memoria collettiva di un Paese minimamente civile, ma rischiano di risuonare afone in questa valle di lacrime di coccodrillo. Habitat naturale della nostra classe politica che si risveglia e si riaddormenta a comando, in un cinico gioco di perenne opportunismo. Immobile nell'attesa di piangere il prossimo morto. E poi un altro. E un altro ancora.