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Era il 13 luglio del 2015. Un’estate caldissima e una giornata come tante per chi, nonostante le temperature, lavora nei campi. Paola Clemente era una bracciante impiegata nella acinellatura dell’uva. Una donna, una moglie, una mamma morta di sfruttamento e di necessità nella patria di Peppino Di Vittorio, a pochi chilometri dalle discoteche e dalle masserie a cinque stelle della Puglia cool. “Andava via di casa alle 2 di notte - raccontava pochi giorni dopo la sua morte il marito Stefano Arcuri - Prendeva l’autobus alle 3. Ai campi, ad Andria, da San Giorgio Jonico, arrivava intorno alle 5.30. Noi a casa la rivedevamo non prima delle 3 del pomeriggio, in alcuni casi anche alle 6. Guadagnava 27 euro al giorno. Poco. Ma per noi quei soldi erano importanti, erano soldi sicuri, assolutamente indispensabili”. Paola è morta di fatica. Non era certo la prima. Non è stata e non sarà, purtroppo, neanche l’ultima. Ma da quel luglio 2015 qualcosa è cambiato, perché il suo tragico destino ha accelerato l’approvazione della legge 199 del 2016, la legge contro il caporalato, la legge di Paola, come in molti l’hanno ribattezzata.
“Nessuno potrà ridare vita a chi la vita l’ha persa per eccessivo lavoro, per eccessivo caldo, per inalazioni di sostanze chimiche nocive, per sfinimento, per mancanza di soccorso - tristemente constatava il marito di Paola - Nessuno potrà ripagare tanto dolore. Ma se a vincere, alla fine, sono i diritti e la legalità, non si sconfigge solo lo sfruttamento, ma si dimostra ai nostri figli che un mondo diverso è possibile”. Un mondo diverso è possibile, è vero, ma bisogna lottare per conquistarlo, quotidianamente. Secondo le stime del IV Rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, le infiltrazioni mafiose nella filiera agroalimentare e nella gestione della domanda e offerta di lavoro attraverso la pratica del caporalato muovono un’economia illegale e sommersa di oltre 5 miliardi di euro. Secondo i dati del rapporto, un’azienda agricola su quattro in Italia ricorre all’intermediazione del caporale per reclutare la forza lavoro: si tratta di circa 30mila aziende su tutto il territorio nazionale. Sono tra i 400 e i 430 mila i lavoratori esposti al rischio di ingaggio irregolare, e di questi ben 130 mila sono in condizione di grave vulnerabilità.
Sconfessando fortemente quello che alcuni vorrebbero farci pensare, il caporalato è fortemente diffuso su tutto il territorio nazionale: oltre alle regioni del Sud Italia (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), forte è l’esplosione del fenomeno al Centro-Nord, in particolare in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Veneto e Lazio. Sempre di più il caporalato si associa ad altre forme di reato, come ad esempio gravi sofisticazioni alimentari, truffa e inganno per salari non pagati, contratti di lavoro inevasi, sottrazione e furto dei documenti, gestione della tratta interna e esterna dei flussi di manodopera, riduzione in schiavitù e forme di sfruttamento lesive persino dei più elementari diritti umani. Una situazione terribile, che raccoglie al suo interno storie di sfruttamento nello sfruttamento, violenza nella violenza, ingiustizia nella ingiustizia.
Le donne sotto caporale, spesso vittime di violenza, percepiscono un salario inferiore del 20% rispetto ai loro colleghi. Nei gravi casi di sfruttamento analizzati, alcuni lavoratori migranti percepivano un salario di un euro l’ora. Il contrasto allo sfruttamento lavorativo, al caporalato, al lavoro forzato in agricoltura è una battaglia che combattiamo quotidianamente. Una sfida non semplice che portiamo avanti ogni giorno con convinzione e costanza, senza retorica, senza frasi ad effetto, senza gesti eclatanti o parole di circostanza.
“Lo so, cari compagni - diceva Di Vittorio nel suo ultimo, famosissimo, discorso - che la vita del militante sindacale di base è una vita di sacrifici. Conosco le amarezze, le delusioni, il tempo talvolta che richiede l’attività sindacale, con risultati non del tutto soddisfacenti. Conosco bene tutto questo, perché anch’io sono stato attivista sindacale: voi sapete bene che io non provengo dall’alto, provengo dal basso, ho cominciato a fare il socio del mio sindacato di categoria, poi il membro del Consiglio del sindacato, poi il Segretario del sindacato, e così via: quindi, tutto quello che voi fate, che voi soffrite, di cui qualche volta anche avete soddisfazione, io l’ho fatto. Gli attivisti del nostro sindacato, però, possono avere la profonda soddisfazione di servire una causa veramente alta”. Una causa grande, una causa giusta che difficilmente regala interviste nei programmi televisivi alla moda o prime pagine sui giornali, ma che dona a tutti noi molto di più: l’orgoglio di ricostruire a piccoli passi un percorso collettivo di consapevolezza e dignità del lavoro, la consapevolezza del nostro ruolo sociale, politico, culturale, aggregativo, di riscatto, rivendicazione, conquista e difesa dei diritti. Un ruolo non sempre riconosciuto, ma costante ed attivo perché il nostro lavoro non è - non può essere! - un mestiere come un altro. La lotta al caporalato - una lotta seria, strutturata, concreta e reale - non può e non deve fermarsi. Lo abbiamo promesso ad Abdullah, Arcangelo, Zaccaria, Ioanlo. Lo abbiamo promesso a Paola. Lo abbiamo promesso a noi stessi.
“Che il cielo si schiarisca - diceva papà Cervi - che sull’Italia torni la pace e la concordia, che i nostri morti ispirino i vivi, che il loro sacrificio scavi profondo nel cuore della terra e degli uomini. Allora sì, mi sarò guadagnato la mia morte, e potrò dire alla madre dolce e affettuosa, alla sposa mia adorata: la terra non è più come quando tu c’eri, sulla terra si può vivere, e non solo morire di crepacuore”. Noi stiamo lavorando per questo, Paola. Perché quella terra che in vita hai lavorato fino a morirne possa finalmente esserti lieve.