“Le dimissioni di Tavares erano attese”. Non è certo sorpreso Giorgio Airaudo dell’uscita di scena, avvenuta domenica 1° dicembre, dell’amministratore delegato di Stellantis. Con lui, segretario generale della Cgil Piemonte ed esperto di automotive, parliamo della situazione del settore, del disimpegno di Stellantis, dell’inerzia del governo, ma anche delle prospettive che potrebbero aprirsi per l’Italia con la transizione all’elettrico.

Come interpretare le dimissioni di Tavares?

Ce l’aspettavamo, anzitutto. Sono arrivate in un momento in cui credo che Stellantis voglia dare un segnale al mercato americano, alle cause che ha in corso negli Stati Uniti, e anche all’arrivo del neopresidente Trump il 21 gennaio prossimo. Immagino, dunque, che le ragioni siano queste.

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Stellantis sembra si stia progressivamente disimpegnando dal nostro Paese: è un’impressione corretta?

Sì, è così. Il disimpegno è iniziato con l’ultimo Marchionne e con la nascita di Fca, quando Marchionne, dopo la prima fase di ricostruzione, ha guardato fuori d’Italia e fuori d’Europa, e non è mai terminato. Con l’arrivo di Stellantis e la gestione di Tavares, che notoriamente è un uomo abituato a tagliare i costi, è un ristrutturatore, un razionalizzatore – e ha così garantito grandi profitti ai suoi azionisti, basti dire che negli ultimi tre anni quasi 50 miliardi sono arrivati in termini di utili operativi – questo disimpegno si è accelerato.

Dove si evince questa accelerazione?

Ci sono alcuni fattori evidenti. Anzitutto sono 8 mila i lavoratori dimissionati, di cui 3 mila a Torino. Poi la selezione dei fornitori, su cui sono stati scaricati i costi, ritirate le commesse e ritardati i pagamenti: ci sono fornitori che hanno dai 18 ai 36 mesi di ritardo. Agli stessi fornitori, inoltre, è stato chiesto di seguire i marchi Fiat in Nordafrica, ad esempio in Algeria, quindi sempre operazioni legate alla razionalizzazione dei costi.

Passiamo al governo: “tavolo automotive” fermo, fondi per il settore praticamente azzerati. Come dovrebbe agire l’esecutivo?

Dovrebbe avere un piano, che nei fatti non ha. Non si può discutere con una multinazionale, che ha molti mercati e di cui l’Italia è una periferia, senza avere un piano per l’automotive e la mobilità. La dinamica per cui ‘quello che va bene alla Fiat va bene all’Italia’ è superata da almeno un ventennio, però continua a restare nel codice genetico dei politici e dei governi. Il tema, dunque, è cosa chiedere a Stellantis, sapendo che se Stellantis non lo soddisfa, bisogna portare altri produttori.

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Anche nella transizione all’elettrico l’ex Fiat sembra indietro. Cosa dovrebbe accadere per riguadagnare posizioni?

In verità Stellantis non è particolarmente indietro: la Renault è sicuramente messa un po’ meglio, ma la Volkswagen è ancora più indietro di Stellantis. La transizione all’elettrico ha però bisogno di un ecosistema da costruirgli intorno. La verità è che l’Italia ci è arrivata tardi, la Fiat proprio non ci pensava. Io ricordo che Marchionne, a lato di una trattativa, mi disse che l’azionista, cioè la famiglia Agnelli-Elkann, non gli dava i soldi per investire sulla ricerca dell’elettrico. Il ritardo, dunque, lo ha tutta l’industria europea, è quello che Draghi quantifica nel tempo di una generazione, ossia una decina d’anni.

È un tempo che si può recuperare?

Sì, è possibile. Ma occorre investire in innovazione, in tecnologia, in infrastrutture. Si recupera magari facendo anche società miste, quindi per contaminazione tecnologica, con chi oggi possiede queste tecnologie: gli americani di Tesla, che peraltro producono in parte in Cina uno dei loro modelli di massima diffusione, e appunto i cinesi.

Ma con la Cina si apre la questione dei dazi…

Il tema dei dazi, soprattutto con l’arrivo di Trump, diventa strategico. Sui dazi l’Europa seguirà gli Stati Uniti o farà accordi con la Cina? E se stipulerà questi accordi, l’Italia è pronta a portare qui i produttori cinesi? Colpisce il fatto che Alfredo Altavilla, ex manager Fiat e oggi responsabile in Europa del costruttore cinese Byd, abbia recentemente detto che eravamo a un passo ad avere Byd in Italia, ma lo abbiamo perso. Com’è noto, il colosso cinese è poi andato in Turchia e in Ungheria.

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Tornando a Stellantis, insomma, come siamo arrivati a questo punto di apparente non-ritorno?

Ci abbiamo messo vent’anni per arrivare a questo punto. Vent’anni in cui si è delegato all’azionista Agnelli e alla proprietà Fiat la gestione delle politiche industriali. Abbiamo perso pure l’occasione di entrare nell’azionariato nel momento della fusione, abbiamo dato soldi pubblici per garantire i dividendi agli azionisti e non per garantire una presenza dello Stato italiano nella nuova società. Siamo quindi in grave ritardo, ma ora abbiamo un’occasione, che è quella della mobilità elettrica.

Cosa occorrerebbe fare per cogliere quest’occasione?

Intorno alla mobilità elettrica è possibile ricostruire un futuro, una manifattura. Bisogna però non perdere l’habitat della componentistica, che per altro non lavora solo per Stellantis: chiunque venga a fabbricare prodotti i cui componenti fanno filiera, ha necessità delle aziende di componentistica. E poi avremmo bisogno di una gigafactory: aver legato Il destino dell’unica gigafactory in Italia alle scelte di Stellantis è una vecchia idea da monopolio nazionale, siamo gli unici al mondo a fare questo.

Sembra però che Stellantis non voglia più fare la gigafactory con Acc…

Non solo, ma per la gigafactory abbiamo messo i soldi Pnrr, quindi dovremmo trovare altri produttori di batterie disposti a farla. Ricordo che l’Ungheria e la Spagna ne fanno tre, altri Paesi una o due. Gigafactory e componentistica sono l’humus necessario per fare auto elettriche in Italia e per attirare anche altri produttori.

Ma per tutto questo torniamo al punto di partenza: serve la politica.

Certo, servono politiche adeguate. E, lo dico sommessamente, servirebbe sapere cosa ha concordato la premier - se effettivamente ha concordato qualcosa - nel suo viaggio in Cina, perché uno dei sei punti dell’accordo pare che parli di automotive. Bisognerebbe anche capire se tutti gli annunci del ministro Urso sui cinesi, che dice disponibili a venire in Italia, sono cose vere o no.

A Mirafiori siamo ormai al 18esimo anno di cassa integrazione. Cosa sta succedendo in quello stabilimento?

Il diciottesimo anno di cassa integrazione segna un’accelerazione in quel piano inclinato su cui è Mirafiori: una fabbrica di 3 milioni di metri quadrati, grande come 900 campi da calcio, l’ultima grande fabbrica rimasta in Europa. Il cui destino è quello del lento spegnimento, una sorta di eutanasia. Una fabbrica dove l’età media ha raggiunto i 56 anni e con molti lavoratori inidonei. Dove ormai si produce più cassa integrazione che automobili: basti pensare che quest’anno la produzione delle 500 elettriche arriverà non oltre le 19.700 vetture.

Questa “sorta di eutanasia” è un duro colpo per il Piemonte…

Per la nostra regione è un colpo serio, ma la questione non riguarda solo il Piemonte. Metà della componentistica italiana è collocata nella nostra regione, il Piemonte è l’unica regione che, a determinate condizioni, può diventare attrattiva per un produttore terzo. A noi risulta che il governo abbia proposto molti siti a chi vuole venire a produrre in Italia, ma alla fine tutti chiedono di visitare il Piemonte. Sappiamo anche che a Stellantis sia stato chiesto di liberare spazi che non utilizza nei suoi stabilimenti, ma da quel che ci dicono informalmente le istituzioni territoriali Stellantis abbia risposto che piuttosto preferisce tenerli chiusi. C’è quindi proprio un problema che riguarda il governo di questo Paese.

Martedì 17 dicembre si terrà nuovamente il tavolo istituzionale con Stellantis. Cosa possiamo aspettarci?

Per affrontare Stellantis, per affrontare il passaggio dalla mobilità termica alla mobilità elettrica senza distruggere ciò che resta della manifattura e del sistema della componentistica, serve un piano. Ma questo piano non c’è. Il rischio è che gli incontri delle prossime settimane certifichino ciò che già conosciamo, magari con qualche ritocchino, soprattutto per Pomigliano, visto che quello stabilimento è l’unico a non avere un prodotto destinato.